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“Giornalismo e potere”, di Piero Ottone

La Fiat al Corriere della Sera? Mi sembra di assistere a un film già visto. Ho alle spalle, anno più anno meno, settant’anni di giornalismo, parecchi trascorsi per l’appunto al Corriere, e posso raccontare che già in un’altra occasione la Fiat diventò l’azionista di punta del giornale. Ma allora tutto era chiaro. Fiat voleva dire in quel frangente (anno 1973) Gianni Agnelli, e Agnelli sapeva diventare, in qualche occasione, un generoso cavaliere. Il
Corriere di quel tempo dava fastidio al potere costituito, alla Democrazia cristiana: era troppo libero, troppo spregiudicato. Eugenio Cefis, gran personaggio del tempo, fiancheggiatore del partito dominante, rappresentante di punta in quella che Scalfari e Turani chiamarono in un libro la razza padrona, voleva mettere le mani sul
Corriere, portandolo via a Giulia Maria Crespi, ultima rappresentante della famiglia. Agnelli intervenne: un po’ perché contrastava (con Leopoldo Pirelli, con altri grandi imprenditori) Cefis e la razza padrona, un po’ per cavalleria, perché era amico di gioventù di Giulia Maria. Ma non aveva secondi fini. Non pensava minimamente a servirsi del Corriere per qualche suo interesse, palese o recondito. Posso testimoniare che non si occupò mai del giornale: né della gestione aziendale né della linea politica. Solo una volta nel giro di un anno venne a farmi visita in via Solferino (allora dirigevo il giornale), perché era venuto a Milano per parlare con Cefis di Confindustria, e aveva mezz’ora a disposizione. Parlammo di tutto un po’, meno che del giornale. Che l’acquisto del
Corriere, per lui, fosse tutto sommato un gioco è dimostrato dal fatto che proprio in quei giorni, non appena scoppiò la crisi petrolifera, col prezzo del petrolio quadruplicato all’improvviso, lui decise immediatamente di vendere la sua quota, abbandonando Giulia Maria alla sua sorte. Scalfari lo punì chiamandolo, in un corsivo, “l’avvocato di panna montata”.
Tutto questo avvenne negli anni Settanta. Ma adesso non c’è nessun Cefis alle porte, nessuna Giulia Maria pericolante, e Sergio Marchionne, nuovo patron della Fiat, non ha niente in comune con Agnelli. Perché fa dunque nel Corriere
quello che ha definito un investimento strategico? Coi tempi che corrono? Fiat o non Fiat, comunque, resta il problema della stampa italiana, e se quarant’anni fa fu preoccupante la crisi petrolifera, oggidì imperversa ben più grave, in tutto il mondo, la crisi dell’editoria e della carta stampata.
Nella lettera aperta al presidente della Repubblica Diego Della Valle, azionista di rilievo nel gruppo Rizzoli, dice che «è in pericolo la libertà di opinione di un pezzo importante della stampa italiana… In un Paese democratico la stampa deve essere indipendente e libera di esprimere le proprie opinioni senza vincoli e pressioni… nel caso specifico del gruppo Rizzoli bisogna evitare che chiunque tenti di prenderne il controllo per poterlo poi utilizzare come strumento di pressione». Parole gravi. Ma il gruppo Rizzoli è controllato da industrie e banche, che hanno interessi diversi da quelli dell’editoria. Ed è purtroppo vero che sono rari in Italia i così detti editori puri, per ragioni storiche.
Vi fu una prima crisi che ridusse il loro numero negli anni Settanta, in seguito all’autunno caldo: il costo della mano d’opera si impennò in breve tempo. Le grandi famiglie dell’editoria, come i Crespi e i Perrone, alzarono bandiera bianca: si affrettarono a vendere prima che fosse troppo tardi. È allora che subentrarono le banche e i gruppi industriali. Eugenio Cefis, presidente prima dell’Eni e poi di Montedison, fu tra i più avidi, e amabilmente, con grande semplicità, mi spiegò perché. Avevamo buoni rapporti, anche se sapevo che il giorno dopo l’acquisto del
Corriere avrebbe cambiato il direttore. «Vede — mi disse — le grandi industrie in Italia hanno un giornale col quale possono fare piaceri agli uomini politici, e poi gli uomini politici ricambiano. La Montedison non ha giornali: deve procurarseli ». E infatti tramava da mane a sera: fondò una prima testata presso Torino, per sparare sugli Agnelli, poi scatenò Rusconi, finanziandolo, e scompaginando la famiglia Perrone, all’assalto del Messaggero, e intanto sosteneva Andrea Rizzoli nell’acquisto del Corriere.
La bulimia di Cefis giustificava il sospetto che non mirasse soltanto a qualche scambio di favori col partito di maggioranza: forse aveva altre ambizioni. Quando all’improvviso decise di lasciare l’Italia, Enrico Cuccia (uno dei suoi estimatori) gli disse: «Ma Lei non doveva fare la dittatura?», e non sappiamo fino a che punto scherzasse. Quel che comunque è rimasto è l’intreccio fra industria, finanza, editoria: brutta peculiarità italiana, e Diego Della Valle giustamente la deplora nella lettera già menzionata. Come impedirla? Se l’autunno caldo fu, in ordine di tempo, la prima causa della crisi, oggi infieriscono sull’editoria altre difficoltà, ben più gravi.
C’è rimedio? Tutte le speranze devono essere riposte nella coscienza professionale di noi giornalisti: nel rifiuto di essere adoperati come strumento di lotta, al servizio del potente di turno.

La Repubblica 11.07.13