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“Che cosa perdiamo se perdiamo la geografia”, di Carlo Petrini

Dalle mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che “non sa da che parte è girato”, ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo “no saben donde están parados”.
Pare che il buon senso popolare opponga un’inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio.
Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede.
Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto “Riordino Gelmini” e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però… Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l’accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce. Ma avere l’accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: «Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare».
Uno degli effetti indesiderati di un’acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti.
Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c’è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l’allora ministro per l’Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008,
di varare il cosiddetto “riordino” che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l’insegnamento della geografia dalle scuole superiori.
Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l’insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con “storia” (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi “Relazioni internazionali” e “Geopolitica”, a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell’obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l’insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato.
È da quest’ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un’altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all’università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell’Agricoltura, o dei Beni culturali.
E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell’Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l’opera di un ministro del medesimo governo.
Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l’assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata?
La nuova ministra per l’educazione vorrà porre rimedio a quel “riordino”? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che “non sa da che parte è girata” ne abbiamo intorno a sufficienza.

La Repubblica 01.08.13

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