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“L’Europa che ci manca”, di Andrea Riccardi

Quando accadono simili tragedie del mare, purtroppo tutt’altro che infrequenti nel Mediterraneo, la prima reazione del mondo politico – quasi un riflesso condizionato – è quello di rivolgere gli occhi verso Bruxelles. Come per dire: l’Europa deve farsi carico del problema, le istituzioni dell’Unione devono fare di più. È una considerazione giusta, se si vuole persino ovvia. Ma rischiano di essere ancora parole vuote, se alla fase della commozione e del cordoglio, non seguono atti di buona e lungimirante politica. Bisogna essere realistici, anche a costo di essere crudi: oggi non esiste, né forse è mai esistita, una politica europea dell’immigrazione perché non esiste una politica estera europea, men che meno una politica per il Mediterraneo.

È un problema, in un’Europa più volentieri proiettata verso l’Atlantico o l’Oriente, di lontananza geografica e culturale di Bruxelles dalle coste del Mediterraneo? Forse. Ma, in questo caso, ci sarebbe comunque da chiedersi perché i Paesi del Sud dell’Europa – i governi di Italia, Francia, Spagna, Grecia, Malta, Cipro – non sono stati mai in grado di fare fronte comune e spiegare ai loro «nordici partner» quale è la reale posta in gioco.

L’immigrazione – è un’altra questione nodale – è stata sempre gestita secondo l’ottica emergenziale e della sicurezza, lasciando i singoli Stati a sbrogliarsela con gli sbarchi, i campi di accoglienza, i salvataggi umanitari e il varo di leggi repressive più o meno efficaci. Intendiamoci, i pattugliamenti delle coste, gli accordi bilaterali con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, una attenta azione di contrasto alla tratta di uomini sono misure importanti che vanno potenziate. Ma è pur vero che nessun recinto, nessuna gabbia, per quanto solidi, possono imprigionare un fenomeno epocale come quello delle migrazioni di massa. L’ottica ristretta e provinciale – e se ne sono avute eco anche nel dibattito politico di ieri in Italia – non produce alcun risultato apprezzabile di fronte a problemi globalizzati.

Entra qui in ballo l’altra faccia della questione immigrazione: la cooperazione internazionale. I fenomeni migratori dall’Africa sono generati da guerre, conflitti, persecuzioni, dalla povertà. In una parola, dalla mancanza di futuro. È davvero così irrealistico sostenere un più diretto e efficace intervento dell’Ue in Africa e nel Medioriente a sostegno della fragile economia locale, dei processi di democratizzazione, della lotta agli estremismi e alle carestie? E non sembra invece più logico tentare di impedire gli incendi, piuttosto che prodigarsi, a rischio di ulteriori vite umane e con spese maggiori, per spegnerli? La coope- razione internazionale, in Italia, è ridotta da tempo al lumicino. In Europa va un po’ meglio, ma non è ancora una delle colonne portanti della politica estera. Da ministro dell’Integrazione e della Cooperazione internazionale mi sono recato a Lampedusa e poi a Bruxelles. Non solo per portare dei fiori sulle tombe senza nome dei tanti morti affogati o la solidarietà del governo a una popolazione generosa e stremata. Ma perché Lampedusa non deve restare un lembo dimenticato dell’estrema periferia italiana, ma deve diventare l’avamposto dell’Europa libera, civile e accogliente nel Mediterraneo, con un centro di avanguardia nell’accoglienza dei profughi, gestito direttamente dall’Ue, con la collaborazione degli Stati e aiuti europei per la popolazione isolana. Sarebbe un segno tangibile di una consapevolezza e di una responsabilità nuove. Le stesse a cui ha voluto richiamarci profeticamente Papa Francesco nel suo viaggio a Lampedusa. Che è qualcosa di più di un monito. Ma una prospettiva e una visione.

L’Unità 04.10.13