attualità, politica italiana

“Fine corsa”, di Massimo Giannini

Non c’è una ragione al mondo, se non il sonno della ragione stessa che ormai acceca il Cavaliere, per definire il voto della Giunta del Senato «un colpo al cuore della democrazia ». La decadenza di Silvio Berlusconi, decisa a maggioranza a Palazzo Madama, è l’esatto contrario: l’affermazione di un principio che fa vivere la democrazia. L’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come ricorda la nostra Costituzione. Il rispetto di una sentenza definitiva di cui non si deve solo «prendere atto», ma che si deve soprattutto «applicare», come ricorda il capo dello Stato nella sua nota del 13 agosto. È vero: quello della Giunta è un voto annunciato. Ma non perché questo organismo istituzionale, come recitano le bugiarde geremiadi berlusconiane, sia stato proditoriamente trasformato in un «plotone d’esecuzione », o sia stato inopinatamente animato dal «fumo» della
persecuzione.
È UN voto annunciato perché così prescrive una legge dello Stato, approvata con il solenne consenso del Pdl durante il governo Monti, e considerata a tutti gli effetti «perfettamente costituzionale» dalla sua stessa firmataria, la ex Guardasigilli Severino. Quella legge stabilisce in automatico l’incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per chiunque abbia riportato una condanna definitiva con pene superiori ai due anni di reclusione. Il Cavaliere è stato condannato a quattro anni nel processo sui diritti tv Mediaset in tutti e tre i gradi di giudizio, per un reato grave come la frode fiscale finalizzata alla creazione di fondi neri dai quali attingere per pagare tangenti. Per questo la Giunta del Senato non può che prendere atto, e decidere di conseguenza: il Cavaliere decade, ed è incandidabile.
In un Paese normale e occidentale tutto finirebbe qui. Non ci sarebbe scandalo politico-istituzionale, se non quello di un leader che si ostina a sfuggire al suo giudice e al suo «giudicato». Non ci sarebbe «attentato allo stato di diritto», se non quello perpetrato nel Ventennio dello Statista di Arcore a colpi di leggi «ad personam» e «ad aziendam». Ma l’Italia è ormai «altro», non solo dal mondo normale ma a volte persino dal canone occidentale. Così, in vista del voto dell’aula del Senato che dopo la Giunta dovrà ratificare in via definitiva la decadenza di Berlusconi, infuriano la consueta canea contro le istituzioni, la rituale minaccia alle toghe, la solita aggressione preventiva contro gli organi di garanzia. E per un giorno, in nome della «lesa maestà» del Sovrano e dello scempio arrecato alla sua sacra figura, tutti si ritrovano a corte. Lealisti e complottisti. Eternamente berlusconiani e diversamente berlusconiani.
Non stupisce, ora, che sfascisti impenitenti e moderati sedicenti urlino insieme, ancora una volta, all’«assassinio politico ». La svolta del 2 ottobre c’è stata, ed è stata a suo modo storica. Per la prima volta dall’epifanica discesa in campo del 1994 il capo assoluto e carismatico del Pdl è stato messo in minoranza, e costretto a una clamorosa ritirata. Per la prima volta la sua anomala «creatura» politica, artificiale e personale, ha somigliato
un po’ più a un partito e un po’ meno ad un’azienda. Ma per quanto drammatica, la disfatta sulla fiducia al governo Letta non è ancora il 25 luglio del Cavaliere. E per quanto coraggioso, lo strappo di Alfano non è ancora l’ordine del giorno Grandi. La destra italiana è entrata in una terra incognita. Forse già non più berlusconiana, ma certo non ancora post- berlusconiana. Una terra in cui la faglia di un estremismo urlato ed esibito incrocia ancora quella di un moderatismo vagheggiato ma inibito. La rottura «governista» imposta dalle colombe si è consumata intorno a un atto che poteva essere davvero «fondativo», ma che al momento non lo è e non promette di esserlo.
Ha ragione chi si aspetta che il prossimo passo dell’ala ministeriale dei pentiti di Forza Italia sia la formazione dei gruppi parlamentari autonomi. E ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che se il Pdl non si spacca sarà stata tutta una «finzione» dal chiaro sapore doroteo. Come insegna la storia migliore e purtroppo minoritaria della Dc, la «moderazione » è una cultura politica e dunque una pratica, non una semplice estetica. Ammesso che esistano davvero, misureremo i «diversamente berlusconiani » dai prossimi passaggi della legislatura. A cominciare proprio dal voto dell’assemblea di Palazzo Madama sulla decadenza. Ma certo non lascia ben sperare uno Schifani che rilancia la sfida al Pd e a Scelta Civica, chiedendo per quel voto, ancora una volta, un «sussulto di responsabilità ». Ci manca solo un nuovo attacco frontale a Giorgio Napolitano, e poi torniamo al copione di sempre, che cancella con un colpo solo la « rivoluzione » del 2 ottobre.
Di fronte ai tormenti della destra, il centrosinistra deve avere senz’altro un «sussulto di responsabilità », ma in tutt’altro senso. Il Pd si è miracolosamente ris coperto unito intorno alla «linea
della fermezza», proprio sulla decadenza del Cavaliere. Per quella via, la via del costituzionalismo e del principio di legalità, ha riattivato la connessione con buona parte del suo elettorato deluso da tanta, troppa «intelligenza col nemico». Si tratta di non smarrire quella via, e di non cadere nelle trappole ordite da un Movimento 5Stelle sempre più impresentabile e sempre più irriducibile alle logiche di una politica che vuol provare a costruire qualcosa, e non si limita a distruggere tutto. Il comportamento di Vito Crimi che in Giunta «posta» i suoi insulti a Berlusconi dice tutto: è sconcertante sul piano istituzionale, perché tratta una delicata seduta in Commissione come una truce assemblea di condominio, ed è ributtante sul piano umano, perché svilisce la dignità della lotta politica alla gratuità dell’offesa personale.
Per il Pd, ancora, si tratta di non prestare il fianco alle tribali divisioni che hanno devastato l’assemblea di due settimane fa. Si tratta di non lacerarsi tra le pastoie neo-centriste coltivate intorno alla figura di Letta e le scorciatoie movimentiste ritagliate sul profilo di Renzi. Si tratta insomma di non aprire un congresso permanente, e anticipato, sulla pelle del Paese. Sarebbe un favore enorme, regalato ancora una volta a un Berlusconi che a questo punto non ha davvero più nient’altro da aspettare. Comunque andranno le cose, nell’aula del Senato e nelle aule dei tribunali, la sua parabola politica volge ormai al termine. C’è solo da accompagnarlo, senza inutili vendette ideologiche, negli archivi della Repubblica.

La Repubblica 05.10.13