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“L’onda Le Pen che spaventa l’Europa”, di Cesare Martinetti

Da undici anni, nel lessico politico francese, la parola «choc» viene associata alla data del 21 aprile, giorno in cui l’impresentabile uomo nero Jean-Marie Le Pen, ruppe il tabù delle presidenziali, umiliando il socialista Jospin e guadagnando il ballottaggio contro il gollista Chirac. Correva l’anno 2002. L’82 per cento dei francesi disse poi no a Monsieur Le Pen, ma intanto quello choc è ora diventato un vento costante che colloca il Front National al primo posto tra i partiti di Francia con il 24 per cento e spazza l’Europa non in forma di fantasma ma di realtà. Piccoli e grandi «front» si sono aperti ovunque e promettono sfracelli per le prossime elezioni del Parlamento europeo.

In Austria, tanto per dire l’ultimo paese Ue in cui si è votato, l’ultradestra di Heinz-Christian Strache, l’erede di Haider alla guida del Fpoe, si può serenamente definire l’unico vincitore delle elezioni con il 21,4. Socialdemocratici e Popolari restano alla guida del paese confermati in Grande Coalizione, ma entrambi ne escono con le ossa rotte. Avranno contro in Parlamento anche un nuovo partito anti-euro. Piccoli Le Pen crescono, in Olanda, in Norvegia, in Gran Bretagna persino, dove la ministra dell’Interno Theresa May ha promesso di cancellare la legge sui diritti umani che armonizza il Regno Unito alla legislazione europea. La motivazione è che queste norme – ha detto May – ci impediscono «di cacciare gli immigrati criminali». In Grecia la crisi ha prodotto Alba Dorata che non si vergogna di definirsi nazista.

Tutti questi partiti e partitini hanno naturalmente sullo sfondo un’origine e un’ispirazione che contiene antisemitismo, xenofobia, islamofobia, ultranazionalismo etc. La miscela che compone quella «lepenizzazione» degli spiriti, come si diceva in Francia dopo lo choc, era il vero rischio derivante dall’affermazione di Le Pen. Il quale, sia chiaro, rappresentava allora rievocazione aperta e allusione sottile ai più cupi fantasmi della storia francese: il governo antisemita e collaborazionista di Vichy, il terrorismo filo coloniale dell’Oas, la difesa dei bastonatori anti immigrati delle banlieues povere. Un mix che si condensava nella battuta del vecchio duce secondo cui le camere a gas di Auschwitz non erano state che «un incidente» della storia.

Naturalmente tutto questo sopravvive, ma non basta a spiegare quel che sta succedendo. Prendiamo proprio la Francia che in questo caso è all’avanguardia. Alla guida del Front non c’è più il vecchio Le Pen con la benda nera da pirata sull’occhio, ma sua figlia, una signora bionda nata dopo la guerra e quindi anagraficamente estranea al nazismo e ai suoi alleati. Finché il discorso politico del Front era il vecchio ritornello xenofobo e razzista, era facile tracciare intorno ad esso un cordone sanitario di galateo politico democratico o, come si dice in Francia, «repubblicano». Ora che invece il discorso di Madame Le Pen è empirico e pragmatico, quasi una constatazione del malessere e della povertà diffusa, è difficile denunciare l’ideologia antidemocratica. I partiti tradizionali, socialisti e gollisti per semplificare, sinistra e destra «repubblicane» si ostinano nel vecchio schema rivelando così l’incapacità di adattare l’azione politica alle disillusioni dell’elettorato sui cui gioca il Front. Il partito, per usare un’altra espressione francese, si è ormai «banalizzato», è diventato come gli altri, ha rotto il tabù, il cordone sanitario non ha più ragion d’essere. E Madame Le Pen ci va a nozze. Quando l’inviato de La Stampa che la seguiva in campagna elettorale le ha chiesto perché andava a fare il «porta a porta» nei quartieri popolari all’ora di pranzo, la signora ha risposto: «Perché sono sicura di trovare i miei elettori: casalinghe, pensionati, disoccupati».

Ciò che rende europeo, trasmissibile e contagioso lo choc del Front è un mix composto di: sfiducia e ostilità verso l’entità Ue in tutte le sue declinazioni, dall’euro ai grandi progetti transnazionali, alle regole, alle aperture. È un sentimento antiglobalizzazione di ripiegamento economico, ma anche politico ed etico. Un orizzonte che si stringe, la difesa del confine, la rinuncia alla prospettiva che rivela qualcosa di più profondo che non è soltanto una legittima reazione alla crisi. È una reazione che colpisce sinistre e destre di governo, tutti i soggetti della politica tradizionale. Un sentimento che in Italia hanno espresso in parte prima la Lega ora i Cinque Stelle. Un mix che unisce destra e sinistra e che si condensa nell’ideologia No Tav (non nell’opposizione locale all’opera, comprensibile) che costituisce da noi il punto più simbolico di tutto questo: il grande progetto visto soltanto come un gorgo di spreco, mafia, corruzione, affarismo. E che si esprime con paradossale autolesionismo esultando ad ogni notizia di ritardo ed esitazione francese nel finanziamento dell’opera quando invece dovrebbe preoccupare la marginalizzazione dell’Italia.

In Germania, il partito antieuro ha preso da destra e sinistra arrivando al 4,7 per cento pur in un paese di benessere diffuso e quasi di piena occupazione. E la signora Merkel ha vinto anche perché ha saputo convincere gli elettori di aver messo gli interessi dei tedeschi davanti all’Europa. Sembra questa l’unica ricetta contro scetticismi e qualunquismi: la buona politica, affidabile, trasparente ed efficace.

La Stampa 10.10.13