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“Quella piazza un simbolo: Milano non si piega alla mafia”, di Oreste Pivetta

Forse capita per la prima volta che una figlia debba assistere nascosta ai funerali della madre. Assiste ma non può esserci, non può stare accanto alla bara, non può ricevere i saluti dei parenti e degli amici, non può stringere mani. Assiste, ma si deve nascondere. Unica prova della sua presenza, la voce. Perché Denise Cosco parla alle persone, alcune migliaia, che in piazza liberamente assistono al funerale di Lea Garofalo. La ferocia della mafia e delle sue regole è anche in questa distanza imposta senza pietà tra una ragazza e la madre, nell’aver ridotto una giovane donna ad alcune parole diffuse dagli altoparlanti. La mafia non sopporta i nemici.

Chissà se Denise sarà riuscita a percepire la solidarietà di quanti si sono presentati ieri in piazza Beccaria, a Milano, davanti al comando dei vigili urbani, per quel funerale, mille duemila tremila persone, non una folla oceanica ma c’era il sindaco e il sindaco si spera sia la città, esprima il sentimento di una città, di Milano, di un popolo, di una regione, la più ricca d’Italia e da sempre il boccone più ghiotto. Quale sarà stata la reale partecipazione (partecipare non significa sempre e solo “presenziare”), quanta invece l’indifferenza. Tutti, a Milano e attorno, sanno quanto sia cospicua la presenza della criminalità organizzata. Si cominciò tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta. La grande migrazione trascinò con sé costumi, tradizioni, dialetti, anche vocazioni ed esperienze criminali. Si disse dei “calabresi”. Ma non ci fossero stati loro ci sarebbero arrivati altri. Cominciarono dalla periferia, poi nella provincia. Il sud Milano fu il campo di prova. Qualcuno, piccolo amministratore o piccolo dirigente politico, si lasciò catturare. L’intreccio si sviluppò e arricchì assessori, sindaci e mafiosi. L’altro giorno è stato sciolto un consiglio comunale per mafia. La criminalità si è insediata, si è rafforzata, ha conquistato il territorio e il controllo del territorio significa estorsioni, sfruttamento della prostituzione, spaccio della droga, gioco d’azzardo (in ultimo imponendo ai baristi di ospitare nei loro locali quelle macchinette mangiasoldi), usura, smaltimento dei rifiuti e appalti per l’edilizia. Gli occhi adesso sono su Expo 2015. I milanesi sanno benissimo che non si tratta solo di un fenomeno di importazione, perché al nord la mafia si è persino “globalizzata” e “modernizzata”, riciclando denaro che finisce depositato ovunque.

I funerali a Lea Garofalo, oltre che un segnale d’ammirazione per una calabrese coraggiosa, sono una testimonianza di ribellione di chi non accetta, di chi ancora sente il primato della legalità, di chi crede nella giustizia, nelle norme della convivenza.

Pochi giorni fa fu una festa di quartiere a radunare tante persone attorno ai gestori di alcuni bar, che avevano rifiutato offerte assai vantaggiose per installare quelle famose macchinette, che rubano molto ma garantiscono molto di più a chi le sistema contro la parete di un caffè e le amministra. Lo disse un barista: ho rinunciato a un bel guadagno. Quanti saprebbero “rinunciare a molti soldi”.

Forse sommando tanti atti, tanti gesti, le imprese di tante associazioni, la commozione di alcune migliaia di persone ieri in piazza Beccaria, la stessa presenza del sindaco si può dare il senso di una possibilità di reazione, possibilità che non si vuol lasciare solo nelle mani di magistrati. Gli anticorpi sani che ci salvano da una declino morale senza limiti possono essere numerosi.

Milano potrebbe stare ancora tra gli esempi virtuosi: domani, se riuscirà a salvare l’expo dalla ‘ndrangheta; ieri, con quei funerali. Si procede così: dare l’esempio. Come è successo altre volte. Così alla ricostruzione del dopoguerra, così ai funerali per le vittime di piazza Fontana (quella piazza piena fu il primo altolà al terrorismo). Piazza Beccaria per Lea Garofalo non sarà la stessa cosa, ma il suo valore simbolico non lo si può negare e si capisce l’esistenza di una rete attorno e, soprattutto, dal passato, da una storia di democrazia e di lavoro, viene l’eredità di una cultura della comunità, che sarà minoritaria ma che nei momenti peggiori ha salvato Milano dalla caduta. La battaglia ora è più difficile. La mafia uccide, ruba, sequestra, ma corrompe pure. Rappresenta qualcosa che si insinua e pervade, che ispira una cultura che non sarà mafiosa ma è di certo di tipo mafioso: per pagare in nero un operaio immigrato, per frodare il fisco, per pagare un funzionario pubblico ottenendo un favore non occorre essere mafiosi o camorristi, ma serve riuscire a nuotare sicuri nello stesso mare.

L’Unità 20.10.13