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“Il valore dell’equità”, di Luca Landò

Ho visto un film. E chi se ne frega, direte voi. Vero, se non fosse che il regista è Robert Reichm ex ministro del Lavoro di Clinton e oggi professore di Economia a Berkeley. Si intitola «Inequality for all» (diseguaglianza per tutti) ed è nelle sale americane dal 29 settembre. Avete letto bene: nei cinema di quello strano Paese proiettano una pellicola che parla di economia e di società, di politica insomma. La tecnica è quella di Michael Moore, con l’autore che gira per gli States a mostrare quello che non va dal punto di vista sociale. Cammina per Wall Street, passa sotto i grandi palazzi del potere che conta, quello economico, mostra tabelle e grafici, va nei sobborghi e nelle periferie, entra negli ospedali pubblici e nelle scuole statali, che non sono la stessa cosa delle cliniche private e dei licei più esclusivi.
E’ un film di denuncia, ma anche di proposta. Perchè il messaggio è chiaro: siamo il Paese più ricco del mondo, dice Reich, ma questa ricchezza è nelle mani di pochi, pochissimi. E quel che è peggio, c’è un partito a Washington che fa di tutto perchè le cose restino così. Se vogliamo cambiarle dobbiamo rimboccarci le maniche, ora e tutti. Fine del film? Niente affatto, perchè le immagini viste in sala (o su un computer, basta scaricarlo) continuano appena esci dal cinema. Sono le code alle mense, sono le fabbriche chiuse, sono i cartelli to rent o for sale davanti a case che nessuno riesce a comprare o affittare.
Non ci vuole molto a capire che quei fotogrammi, cartelli a parte, sono gli stessi che vediamo ogni giorno da noi. E non potrebbe essere altrimenti. Italia e Stati Uniti sono i Paesi industriali con il più alto indice di Gini, un coefficiente che misura il livello di diseguaglianza di un Paese: più alto l’indice, più ampia la differenza tra redditi alti e redditi poveri. In America è intorno al 40, in Italia è più basso, 32, ma è il più alto d’Europa. Dal 2009 a oggi questo indice ha cominciato a crescere, mostrando con i numeri quello che avevamo fiutato col naso: che la crisi ha impoverito la classe media e aumentato la distanza tra chi ha sempre di più e chi ha sempre di meno. Un esito inevitabile? Niente affatto: in Germania lo stesso indicatore è in calo dal 2007.
Il guaio è che le diseguaglianze sociali ed economiche, quando sono così elevate, non sono solo inaccettabili (certo, anche questo) ma sono anche negative dal punto di vista economico. Nel suo ultimo libro Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, non usa giri di parole: «La disuguaglianza uccide il Pil». Perchè quando la ricchezza si concentra nelle mani di pochi, la macchina economica si ferma. Secondo una classifica della Banca mondiale, tra i 50 Paesi con il più alto Pil procapite, i più ricchi sono quelli che hanno anche un maggiore livello di eguaglianza: prima la Norvegia, terza la Danimarca, quarta la Svezia, sesta la Finlandia. E l’Italia? Non pervenuta.
Perché è vero, come diceva Berlusconi premier, che «gli italiani sono ricchi, con un rapporo tra ricchezza delle famiglie e Pil di 6 a 1, maggiore che negli altri Paesi europei», ma come per i polli di Trilussa c’è chi ha tutto e chi niente: il 45% di questa grande ricchezza appartiene infatti solo al 10% dei cittadini, mentre il 50% meno ricco ne possiede solo il 10%. Un paradosso, ovviamente, ma non certo l’unico. Lo scrive Nicola Cacace nel suo bel libro «Equità e sviluppo»: siamo il Paese più vecchio del mondo (età media 45 anni) con la disoccupazione giovanile più alta d’Europa (oltre il 30% contro il 20% europeo); siamo il Paese europeo con meno laureati eppure abbiamo il più alto livello di laureati disoccupati o sottoccupati. E siamo un Paese «congelato» perché da tempo la scuola non è più quell’ascensore sociale di cui si è favoleggiato a lungo: oggi solo il 10% dei figli di operai diventa professionista, mentre il 45% dei figli di medici sono medici, di architetti sono architetti, di ingegneri sono ingegneri. Una paralisi sociale, ingiusta moralmente ma pericolosa strategicamente: perché è anche da questa immobilità che nascono le resistenze del Paese a lanciarsi lungo nuove strade e nuovi mestieri.
Che fare? Gli esperti indicano tre strumenti, tre cacciaviti con i quali assemblare un Paese diverso o quanto meno all’altezza dei tempi: arrestare il declino demografico; favorire l’innovazione; redistribuire più equamente il reddito. Sono questi i quadri che premier, ministri e segretari di partito dovrebbero appendere nel proprio studio. Perché è da questi quadri e da queste cornici che dovrebbero discendere le politiche di risanamento economico e sociale, prima ancora che finanziario.
C’è un ultimo punto. Il 75% dell’occupazione dei cinque maggiori Paesi industriali – Usa, Giappone, Germania, Francia e Gran Bretagna – viene dai servizi (turismo, trasporti, istruzione, cul- tura, ecc.) mentre in Italia si arriva a fatica al 68%. E se cominciassimo proprio da qui? Sette punti in meno corrispondono a due milioni di occupati, calcola Cacace. Non sarebbe il caso di fare, seriamente, quello che gli altri Paesi stanno facendo da tempo e meglio di noi? Certo, bisognerebbe puntare sui giovani aiutandoli a formarsi, prepararsi e magari inventare nuovi mestieri e nuovi servizi.
Già, i giovani. La frase più citata degli ultimi dieci anni recita che senza giovani non c’è futuro: altrove è la linea guida di qualunque piano di sviluppo nazionale, da noi sembra un epitaffio di Spoon River.

da L’Unità