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“Lavoro o reddito di cittadinanza?”, di Laura Pennacchi

Di fronte all’entità e alla natura della questione occupazionale indotta dalla crisi più grave e èiù òunga del secolo la strategia del «lavoro di cittadinanza» – centrata su di un Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne ispirato al New Deal – dovrebbe essere la priorità di tutte le forze politiche democratiche, specialmente di quelle che si vogliano autenticamente di sinistra e perciò dichiarino guerra alla disoccupazione. Stupisce, invece, che venga riproposta con superficialità – oltre che con spirito populistico e demagogico specie nelle formulazioni di Grillo e del Movimento 5stelle – una strategia che dà priorità al «reddito di cittadinanza» senza alcun riferimento meditato alla crisi globale e alle sue drammatiche implicazioni occupazionali.
È necessario innanzitutto chiarirsi sui termini.

L’Italia deve certamente dotarsi di strumenti, delimitati e circoscritti, di necessaria lotta alla povertà, come il «reddito di inclusione attiva» (una forma del quale da noi fu introdotta sperimentalmente dal primo governo Prodi e poi soppresso dal duo Berlusconi-Maroni). Ma è opportuno avere chiare le differenze tra «lavoro di cittadinanza» (da cui scaturirebbe naturalmente anche un reddito decente), varie forme di «reddito minimo», «reddito di cittadinanza» (da cui non scaturirebbe altrettanto naturalmente un lavoro decente), quest’ultima un’ipotesi molto più ampia di quelle stesse di «reddito minimo», non solo per gradazione ma per qualità e natura, perché con esso si mira a garantire a tutti, per il solo fatto di essere cittadini di una comunità, un reddito universale e incondizionato. Il problema dei costi in termini di finanza pubblica – pur enormi, al punto che si oscilla da 20 a un centinaio di miliardi di euro all’anno – della prospettiva di «reddito di cittadinanza» non è il più rilevante. Più rilevanti sono fondamentali problemi culturali ad essa sottostanti. Il primo è la scissione del nesso costituzionale tra lavoro e dignità, il quale considera il lavoro non solo come attività ma come processo antropologicamente strutturante l’identità umana. Il secondo problema è il privilegio dato a uno strumento – trasferimento monetario cioè denaro – che rimane sostanzialmente interno alla logica del meccanismo di accumulazione con baricentro nella finanziarizzazione approdato nella tragedia della crisi globale e che, se introdotto, in particolare in Italia, rafforzerebbe uno dei suo guasti storici e cioè la pre- valenza dei trasferimenti monetari sull’erogazione di lavoro e di servizi. Il terzo problema è che esiste una versione neoliberista del «reddito di cittadinanza» con cui essa si presenta come compimento del «conservatorismo compassionevole» (riduzione drastica di spesa pubblica e tasse e rete protettiva ridotta all’osso per i deboli, come nella «imposta negativa» di
Milton Friedman) nella cui orbita si muovono anche versioni più nobili, che tuttavia finiscono con l’avvalorare l’immagine di uno stato sociale «minimo», non troppo diverso da quello «residuale» ipotizzato dalle destre, specie nelle varianti più conseguenti che suggeriscono di assorbire nel nuovo trasferimento tutti quelli esistenti (tra cui le prestazioni pensionistiche e l’indennità di invalidità civile) e di azzerare la fornitura di servizi pubblici dalla cui sospensione (parziale o totale) verrebbero tratte le risorse aggiuntive necessarie al finanziamento.

In sostanza alla prospettiva del «reddito di cittadinanza» è generalmente sottesa l’idea che la situazione critica attuale sia immodificabile, in termini di disoccupazione così come in termini di dualizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, e che in particolare non sia rimediabile la sua profonda carenza di lavoro alla quale ci dovremmo rassegnare «compensandola» e «risarcendola» sul piano monetario, ipotesi in realtà esiziale per il futuro della «civiltà del lavoro». Dovremmo, infatti, dismettere l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e ridimensionare l’ambizione di intervenire sulla strutturalità dei problemi contemporanei delle economie mondiali (che certo non sarebbe scalfita mediante mere misure di trasferimento monetario del tipo «reddito di cittadinanza»). All’opposto, io ritengo che proprio perché il sistema economico odierno non crea naturalmente «piena e buona occupazione» e, anzi, naturalmente svaluta, cancella, espelle, precarizza il lavoro, va dichiarata guerra alla disoccupazione e riproposta una strategia di pieno impiego di tutti i fattori della produzione, in primo luogo lavoro e capitale. Bisogna sapere che questo reimpone una iniziativa politica di altissimo profilo di «riforma del capitalismo». Invece di considerare inespugnabile la cittadella del «capitalismo antidemocratico» che ha demolito e soppiantato il «capitalismo democratico» frutto del compromesso keynesiano dei «trenta gloriosi», bisogna per- vicacemente continuare a interrogarsi su ciò che Co- lin Crouch chiama «making capitalism fit for society » (rendere il capitalismo adeguato alla società), riscoprendo l’importanza degli investimenti pubblici per creare lavoro (anche con schemi ad orario ridotto). Sotto questo angolo visuale la prospettiva del «lavoro di cittadinanza» è molto più ambiziosa e antropologicamente motivata – oltre che assai più realistica per- ché assai meno costosa – di quella del «reddito di cittadinanza», sbagliata come parola d’ordine non tanto perché troppo massimalista ma perché troppo poco radicale.

Trasferimenti monetari tipicamente indifferenziati, elevati e generalizzati, che rischiano di proporsi come strumento unico con cui risolvere una marea di problemi aventi, viceversa, bisogno di policies arti- colate, mirate, concrete, non sono in grado di incide- re davvero né sui problemi strutturali, né sulla volontà di rimettere al centro la giustizia. All’opposto, essi possono rafforzare alcuni rischi: – che i veri problemi odierni (in particolare l’incapacità del sistema economico di generare «piena e buona occupazione») rimangano oscurati e che, in ogni caso, rispetto ad essi si sia spinti ad assumere un atteggiamento rinunciatario; – che attraverso compensazione, riparazione, risarcimento, molto diversi dalla promozione vera, lo status quo risulti confermato, sanzionato, legittimato; – che l’operatore pubblico sia indotto alla accentuazione di una deresponsabilizzazione già in atto (per qualunque amministratore è più facile dare un trasferimento monetario che cimentarsi fino in fondo con la manutenzione, la ricostruzione, l’alimentazione di un tessuto sociale vasto, articolato, strutturato), quando non addirittura al restringimento e all’«arretramento ».

L’Unità 23.11.13