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"Ma ora il premier non può fallire", di Michele Ciliberto

Ma questa è ormai acqua passata e non serve recriminare. Il problema sul tappeto è, ora, la costituzione del nuovo governo e l’azione che esso può svolgere in condizioni di gravi difficoltà. Esprimo con chiarezza il mio punto di vista: la possibilità dell’Italia di cominciare a uscire dalla crisi che l’attanaglia da alcuni decenni è strettamente legata alle forme e ai contenuti con cui si svolgerà e si concluderà questa vicenda. La formazione e la presentazione di un governo sono sempre un atto solenne nella vita di una Nazione, ma in questo caso in ballo c’è qualcosa più profondo, di più radicale, di cui, anche a sinistra, occorre avere consapevolezza.
La crisi italiana ha avuto, tra molti aspetti, un tratto specifico, rappresentato dalla crisi e poi dalla sostanziale rottura del rapporto di fiducia tra «governanti» e «governati», fra il popolo sovrano e le sue classi dirigenti, specialmente quelle impegnate nella sfera politica. È qualcosa che viene da lontano, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, accentuato dalla crisi dei primi anni Novanta con il declino e la fine dei partiti della prima repubblica, acuita al massimo nel ventennio berlusconiano. Quando il presidente della Repubblica decise di affidare la guida del governo a Mario Monti, cioè a un tecnico, prese atto di questa situazione, e con gli elementi a disposizione cercò di trovare una via di uscita, che facesse i conti con questa situazione. Si può discutere, come ha fatto di recente un giornalista americano, la procedura seguita, ma questa è la sostanza della cosa: una presa d’atto della crisi della rappresentanza politica, in un momento gravissimo sia sul piano nazionale che su quello internazionale.
In che modo siano andate le cose è sotto gli occhi di tutti, e non sto qui a sottolinearlo, se non per dire che lo scarto tra «dirigenti» e «diretti », in quel periodo, si è ulteriormente approfondito, come era del resto prevedibile: la tecnica non ha mai risolto i problemi della politica e della rappresentanza politica, a meno di non imboccare strade autoritarie; ma, con questo, si esce fuori dalla democrazia.
Considerati oggi, i tentativi di Monti di dar vita a un nuovo partito di Centro sorprendono per l’incomprensione che rivelano del livello e dei caratteri della crisi italiana. Eppure, c’era già Grillo a testimoniare, con il suo successo e il suo lessico a quale punto di deterioramento fosse ormai arrivato il rapporto di fiducia – fondamento di ogni democrazia – tra «dirigenti» e «diretti», e come la crisi della Repubblica stesse, in effetti, precipitando a una sorta di punto di «non ritorno», con una rottura delle stesse basi costituzionali.
La vicenda politica del nuovo segretario del Pd va collocata su questo sfondo, per essere decifrata in modo adeguato. Viene da lontano, non è improvvisata, ma certo è stata fortemente favorita, negli ultimi anni, dalla sua indubbia capacità di incrociare alcune dinamiche profonde della Nazione e di entrare in sintonia con esse, sia a destra che a sinistra, scegliendo, in modo programmatico, di mettersi oltre i confini tradizionali della politica, rottamando il vecchio e venendo incontro, con un lessico politico essenziale e «selvatico», al bisogno di cambiamento che esiste nel Paese; una esigenza, un’ansia di novità tanto profonde quanto indifferenziate, ma assai diffuse dopo la fine del ventennio berlusconiano, sia a destra che a sinistra. In questo senso è vero, per quanto paradossale, che il segretario del Pd è al tempo dentro e fuori i confini del suo partito. Se non si capisce questo non si intende né la sua figura né perché abbia avuto successo con le primarie battendo concorrenti che apparivano o più legati a logiche e storie di partito o più nettamente schierati in un orizzonte di sinistra. Il segretario del Pd ha vinto perché è riuscito a sparigliare il gioco su entrambi i lati. Dire che è un frutto del berlusconismo non serve a niente, anzi è una sciocchezza: certo, si serve delle «forme» di comunicazione e propaganda messe in circolazione nel ventennio, ma le situa in un contesto assai diverso, coerente – se si vuole – con il mondo da cui proviene.
Di tutto questo le primarie sono state un effetto e una conferma notevole, nonostante il tentativo – inutile – che oggi si fa di ridurre, sul piano quantitativo, la forza di quel successo. Non sono comunque i numeri che, in questo caso, contano: ciò che conta, sul piano politico, è che in esso si è espresso l’ansia di cambiamento e di novità che percorre, come un fiume carsico ma assai potente, la nostra società: ferita, dolente, ma non vinta. Di qui, da questo bisogno, occorre partire se si vuole esprimere un giudizio corretto sulla situazione attuale: se esso fosse frustrato non sarebbe grave solo per le sorti personali del segretario del Pd, ma per il Paese. Questo è, oggi, il punto su cui occorre riflettere, per le duplici, e opposte, prospettive che questa vicenda può aprire.
Se il segretario del Pd riesce a fare un governo all’altezza delle aspettative che si sono concentrate sulla sua persona, verrà fatto un importante passo in avanti; se invece fallirà aumenterà il livello di sfiducia, di risentimento politico e sociale, di distacco dalla politica, e prenderanno sempre più corpo le forze che già di sono poste fuori dal sistema democratico rappresentativo giocando con durezza la carta della democrazia diretta per scardinare le basi della legalità repubblicana.
Siamo dunque a un passaggio importante che bisogna considerare con mente fredda, senza farsi travolgere dai sentimenti e dalle emozioni. Oggi, è importante che il segretario del Pd vinca la sua partita, non in «assenza di gravità» ovviamente; ma sulla base di un programma che raccolga i punti più innovativi delle sue proposte: lavoro, scuola, cittadinanza agli immigrati, diritti civili…
Ce la farà con il materiale a sua disposizione? Questo è il punto veramente decisivo, e qui si misureranno le sue capacità, anche nel riuscire ad attrarre forze nuove nel suo progetto. Colpisce, ad esempio che personalità di primo piano stiano rifiutando di entrare nel governo: è un segno ulteriore, se ce ne fosse bisogno, della frattura che c’è oggi fra «politica» e «società», della diffidenza verso l’azione politica anche nei suoi punti più alti: il Parlamento e la funzione del governo. E questo conferma anche che nelle nostre classi dirigenti non c’è adeguata consapevolezza della crisi in atto, e degli esiti in cui essa può sfociare.
Nel medioevo si attribuivano ai re capacità taumaturgiche con cui, secondo la leggenda, guarivano gli «scrofolosi» attraverso l’imposizione delle mani. Non so se il segretario del Pd abbia qualcuna di queste capacità miracolose: gli sarebbero necessarie. Ma una cosa invece è chiara, e spero sia chiara anche a lui: se non è possibile formare un governo che rappresenti un effettivo elemento di novità e avviare una politica che corrisponda all’ansia di mutamento del Paese, meglio fermarsi e cercare di imboccare altre strade.

L’Unità 18.02.14