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"Università, bocciati all'abilitazione ma costretti a insegnare", di Salvo Intravaia

​Bocciati, ma costretti a rimanere in cattedra ad insegnare. Ecco il singolare destino di migliaia di ricercatori universitari italiani alle prese con l’Abilitazione scientifica nazionale: la patente introdotta dalla riforma Gelmini, necessaria, in futuro, per partecipare ai concorsi per docente di prima – l’ex professore ordinario – e seconda – il professore associato – fascia. Ricercatori italiani, sfruttati e maltrattati? Stando ai loro racconti, sembra proprio di sì. Ma il tutto si svolge nel più assoluto riserbo, visto che nessuno se la sente di denunciare apertamente, se vuole continuare ad avere qualche chance all’interno del proprio ateneo.

Noi siamo riusciti a raccogliere qualche testimonianza, ovviamente anonima. E la storia è sempre la stessa. Giuseppe (nome, ma soltanto quello, di fantasia) da anni è “costretto” a sobbarcarsi l’insegnamento di una o addirittura due materie all’università perché gli atenei italiani non hanno sufficienti professori ordinari e associati per coprire l’intero ventaglio degli insegnamenti che impartiscono. “Per preparare le lezioni e garantire un servizio all’altezza della situazione sono costretto a trascurare la ricerca scientifica per cui l’università mi ha assunto”, spiega. Ma quando poi c’è in ballo l’abilitazione scientifica nazionale la maggior parte dei candidati viene bocciata in malo modo.

“Con le mie pubblicazioni non sono riuscito a rientrare nelle mediane fissate dal ministero”, aggiunge. Giuseppe e tanti altri non sono abbastanza bravi nella ricerca scientifica da essere promossi e vengono “trombati” nella selezione per l’Abilitazione scientifica nazionale, ma vengono mantenuti ad insegnare ugualmente le materie che hanno sempre garantito ai propri atenei, anche senza quell’abilitazione che certifica le competenze proprio per professore associato, la figura preposta all’insegnamento. Ma com’è possibile? Non sono in grado di insegnare, quindi? E allora perché continuano a farlo?

Tra i tanti paradossi, l’Italia vive anche quello che vedrebbe circa metà degli studenti universitari nelle mani di “professori” non idonei all’insegnamento. I nostri figli studiano con “professori” non all’altezza della situazione? E’ quello che una ricercatrice meridionale, Maria (anche questo nome di fantasia) ha cercato di fare capire ai suoi colleghi associati. Dopo essere stata silurata al concorso per l’Asn, ha preso carta e penna e ha scritto loro poche e semplici parole: “Non essendo idonea all’insegnamento, cosa devo fare: continuare ad insegnare la mia materia, oppure abbandonare la cattedra e rientrare in laboratorio per la ricerca?”. La risposta è stata chiara: “In fondo cosa cambia, non eri idonea prima e non lo sei neppure adesso. Puoi continuare ad insegnare”.

Scorrendo le lunghissime liste delle abilitazioni scientifiche nazionali pubblicate dal ministero si scoprono tantissime Marie e Giuseppe. A. A. insegna Sociologia del territorio per i servizi sociali all’università di Chieti-Pescara. Ma non ce l’ha fatta ad acciuffare l’abilitazione. G. B. è nelle stesse condizioni a Cagliari: insegna Geometria I nell’ateneo sardo, ma non ha superato l’ostacolo dell’abilitazione. A Pavia, A. C. insegna addirittura due materie: Diritto commerciale e Diritto dei mercati finanziari.

Stesso destino anche per A. T. docente di Microbiologia generale ed Enologia a Pisa ma che non ce l’ha fatta ad ottenere l’abilitazione nazionale. “Le pubblicazioni selezionate, così come la produzione scientifica complessiva, appaiono – recita il giudizio della commissione – di livello accettabile. Tuttavia, il contributo della candidata alle pubblicazioni selezionate appare molto moderato. La continuità della produzione scientifica selezionata e complessiva indica un notevole rallentamento negli ultimi anni. Gli altri titoli presentati sono di buon livello, ma non tali da controbilanciare le precedenti valutazioni. All’unanimità, non appare giustificata l’abilitazione scientifica nazionale della candidata per il ruolo di professore di II fascia”.

E i numeri confermano che senza il contributo all’insegnamento dei ricercatori l’università si bloccherebbe. Secondo la banca dati del ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, il corpo docente di ruolo è composto da poco meno di 55mila tra ordinari, associati e ricercatori. I professori abilitati all’insegnamento – di prima e seconda fascia – sono circa 30mila, ma gli insegnamenti che si impartiscono in tutti gli atenei nostrani sono quasi 77mila. Ogni prof dovrebbe quindi sobbarcarsi il peso dell’insegnamento di due o tre materie all’anno. Ma, di fatto, buona parte della didattica è delegata ai ricercatori ai quali viene chiesto di aderire “volontariamente”.

Il popolo degli addetti alla ricerca è il più numeroso: oltre 24mila ricercatori a tempo indeterminato e 1.800 a tempo determinato. I quali, gratuitamente, si accollano da anni l’insegnamento di una o due materie. In alcuni casi, i ricercatori reggono interi corsi di laurea. Ma la riforma Gelmini si è praticamente scordata di loro: dovranno partecipare all’abilitazione scientifica nazionale come qualsiasi soggetto che voglia intraprendere la carriera universitaria per ottenere il lasciapassare per il successivo concorso. Intanto, con o senza abilitazione, continuano a insegnare.

da www.repubblica.it