attualità, politica italiana

"Silvio e il lavoro una leggenda tradita", di Filippo Ceccarelli

Frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita, prima o poi tutti i nodi vengono al pettine e così da oggi Silvio Berlusconi, il Cavaliere, non è più Cavaliere del Lavoro. Con ordinaria astuzia e rinomato tempismo si è autosospeso in extremis, poche ore prima che la Federazione lo cacciasse via per indegnità. Sono gli effetti, per certi versi anche un po’ ritardati, di una sentenza definitiva che a 77 anni oscura per sempre non solo l’identità e la cultura, ma anche la stessa leggenda imprenditoriale di Berlusconi.
QUEST’ULTIMA precocemente gli valse l’»Ordine al Merito del Lavoro», ma adesso proprio il lavoro, il lavoro senza maiuscole e senza onorificenze, il lavoro di tutti e di tutti i giorni, quei delitti hanno prima offeso e poi colpito al cuore. Per cui basta, via, vade retro, gli altri meno noti Cavalieri non lo riconoscono più come tale, e non è un modo di dire, ma davvero finisce un’epoca.
Per vent’anni e più egli è stato in effetti «il Cavaliere», là dove l’articolo determinativo, oltre ad accomunarlo ad altri pochissimi protagonisti — l’Avvocato (Agnelli), il Professore (prima Fanfani, quindi Prodi), il Contadino (Gardini), l’Ingegnere (De Benedetti), per qualche mese il Sindaco (Renzi) — comunque indicava un’autorità e una caratura professionale pressoché esclusive. E per quanto nell’intima cerchia aziendale ci si riferisse a lui come «il Dottore», mai risulta che Berlusconi abbia disdegnato quell’altro assai più roboante titolo che pure alcuni giornalisti simpatizzanti, a partire dal Foglio, avevano abbreviato e nel contempo reso pop: «il Cav.» Vero è pure che un Cavaliere in Italia c’era già stato, e anche con sinistra risonanza se si pensa al comunicato radio con cui Sua Maestà il Re e Imperatore, il 25 luglio del 1943, accettò le dimissioni di «Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini ». Ma tutto poi si dimentica, la storia è meno fraudolenta delle figure che vi si incontrano e adesso non mancheranno le ironie sul Cavaliere disarcionato o caduto da cavallo.
Quando invece, ai tempi primigeni della Cavalleria, la degradazione era una faccenda piuttosto seria; un rito che ruotava intorno al denudamento e alla morte, per cui l’indegno veniva appunto svestito delle sue armi, a loro volta destinate alla rottura e al calpestamento, e coperto di un drappo funebre veniva trasportato in chiesa tra insulti e sberleffi prima di esserne ignominosamente espulso.
Oggi, al netto della gogna e del medioevo post-moderno, va così. Eppure è difficile in questo giorno dimenticare quanta importanza il lavoro — «la trincea del lavoro», «il gusto del lavoro fatto bene », «un laurà de la Madona» — abbia rivestito nel carattere e nel fenomeno del berlusconismo. Quando voleva dire il peggio di qualcuno gli veniva naturale: «Non ha mai lavorato» — e spesso, occorre riconoscerlo, con parecchi avversari aveva anche ragione.
Inutile qui ripercorrere la prodigiosa disponibilità tutta
milanese del personaggio, fin dalla più tenera età disponibile a svolgere compiti in classe a pagamento, commercializzare merendine, poi pubblicizzare aspirapolvere, fotografare matrimoni e via con un’abbondante mitografia prima di conseguire quei successi nell’edilizia e nelle telecomunicazioni che lo portarono al più rapido cavalierato.
Inutile anche soffermarsi sull’assai superficiale istruttoria che nel giugno del 1977, presidente della Repubblica Giovanni Leone, consentì quel salto nell’empireo del Lavoro. Basti ricordare che a quei tempi erano ben noti gli impicci — abusi, corruzione — che avevano portato quell’imprenditore con misteriose società in Svizzera e
storica villona acquistato con dubbi magheggi alla costruzione di Milano 2.
E tuttavia, una volta sceso in politica, Berlusconi non perse mai l’occasione di presentarsi, anzi nell’automagnificarsi come il supremo imprenditore, per questo invidiato anche dai Grandi della terra, un tycoon, e io ho fatto questo, io ho creato un impero, io non ho mai licenziato nessuno, e alla fine arrivò a raccontare addirittura barzellette in cui faceva Dio vicepresidente riservandosi il comando definitivo — e vai a vedere come finiscono queste cose, male, malissimo, ché quasi fanno pena, o forse nemmeno perché contengono una lezione per tutti.

La Repubblica 20.03.14