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"Carlo Rubbia: vado a vivere su Marte", di Dario Cresto-Dini

Nella sua bella faccia giuliana dalla non lontanissima somiglianza con quella dell’attore americano John Wayne, ciò che più colpisce sono gli occhi di bambino messi su un uomo antico alto quasi un metro e novanta e spalancati sulla meraviglia. «Sa, mi sembra impossibile che io abbia ottant’anni. Ho vissuto a cavallo di due secoli, conosciuto una quantità innumerevole di persone e tra queste menti geniali come Enrico Fermi, Niels Bohr, Richard Feynman, Wolfgang Pauli. Ho imparato che la vita è un recipiente, devi considerarlo sempre mezzo pieno. Sono nato in un tempo di tragedia in cui non potevi non essere ottimista. I miei mi raccomandavano: credi in te, guarda sempre avanti. Penso di averli ascoltati, guardo molto avanti ancora oggi, fino al limite del possibile. Sono sempre curioso. Cerco ancora dentro di me lo stupore ingenuo dell’infanzia. È nel bambino che vediamo la scintilla della curiosità, nel bambino che rompe il giocattolo perché vuole sapere com’è fatto. La curiosità, non la saggezza, ha trasformato l’uomo. Se da vecchi si ha la fortuna di possedere una mente che funziona ancora, bene, una parte di essa occupatela nel tentativo di accudire il vostro spirito infantile. Mi crede se le dico che Einstein non ha fatto più nulla di veramente significativo dopo i trent’anni?».
Carlo Rubbia festeggerà i suoi ottant’anni tra una settimana. «Sono cresciuto a Gorizia in un mondo molto diverso da quello di oggi. Mi ricordo di un’umanità che si reggeva su un sistema lineare: si poteva soltanto andare avanti o indietro, una sopravvivenza quasi primordiale. Ma allora, forse, era più facile trovare se stessi». È in giacca e cravatta, camicia azzurra, scarpe da ginnastica o, meglio, mi sembra di capire da mezza montagna e calzini scozzesi, le mani grandi cercano un paio di volte in una tasca un fazzoletto di stoffa di quelli che le madri di una certa generazione allungavano ogni mattina ai figli, come un’ultima carezza sulla porta di casa: «Mia madre, Beatrice, era maestra elementare, di discendenza e cultura austroungarica. Il suo cognome, Lietzen, venne italianizzato in Liceni». «Mio padre, Silvio, era ingeg nere elettronico, si occupava di telefoni a Trieste. Gorizia era una frontiera, un luogo bellissimo pieno di colori e lingue e dialetti, un luogo complicato e aperto. Il mondo entrava in casa da una radio che mio padre aveva attaccato a un palo della luce. Inseguendo le voci che uscivano da questa grande radio ricevente costruita con vecchie valvole a vuoto ho cominciato a prendere le misure di un altro mondo e dei miei desideri. Il primo viaggio è stato una fuga. Da Gorizia a Venezia durante la guerra, la sola città in cui ancora oggi mi sento pienamente felice, anche se sta evaporando come la nebbia perché purtroppo è una città offesa dalla modernità per la sua stessa natura».
Il Nobel per la Fisica segna un altro anniversario tondo: trent’anni, era il 1984. Gli viene assegnato, assieme all’olandese Simon van der Meer, per aver scoperto le particelle responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni denominati W+, W- e Z, con un esperimento che doveva verificare la teoria elettrodebole di Abdus Salam e Steven Weinberg. Non approfondiamo l’argomento, il professore intuisce che comprenderei nulla o poco. La notizia del premio lo colse su un taxi da Milano a Malpensa, doveva prendere un aereo per Trieste e a mezzogiorno la radio dell’auto — ancora una volta la radio — diede con un flash la notizia che un italiano aveva vinto il Nobel per la fisica.
Ma chi è questo Rubbia, domandò il tassista. E lui disse: sono io. Con un tono allegro, privo di sorpresa perché sapeva di essere nel novero dei candidati e perché, come confessò con umiltà qualche tempo dopo in un’intervista, «era semplicemente uno dei tanti eventi della vita che agli occhi degli altri ti trasforma in James Bond, mentre tu rimani lo stesso perché non ti dà l’immortalità». Gli domando se continua a pensarla nello stesso modo anche ora, dopo aver attraversato un così lungo tratto di vita. Mi dice con un sorriso serafico e disarmante: «Una cosa conosciuta non mi interessa più».
Professore, come si diventa scienziati?
«Da piccolo il regime fascista mi fece vestire da balilla, mio padre era partigiano, mia madre profondamente antifascista. Mi hanno educato alla libertà e alla conoscenza. Ho sempre prediletto il domani rispetto all’oggi e mi è sempre piaciuta l’invenzione. Per un’invenzione ancora non diffusa avrei potuto morire. La penicillina, scoperta nel 1929, non fu disponibile se non dopo la guerra. Fortunatamente riuscii ugualmente a guarire dalla broncopolmonite. Nell’immediato dopoguerra la voglia di progredire era una spinta fortissima, una carica di energia che non si è mai più rinnovata con la stessa forza. La conoscenza è basata sull’incertezza, sui traguardi che appaiono impossibili, sulle piccole cose che scorgiamo lontanissime, indefinite e spaventose ma che ci attraggono come un magnete. Solo gli intrepidi e gli avventurieri le vedranno da vicino. Il mondo è stato cambiato dall’eccezione, non dalla media».
Sta dicendo che siamo troppi in copia conforme e così tremebondi o prudenti da non riuscire a pensare che il progresso di domani non sia altro che l’assurdo di oggi?
«Dal giorno in cui siamo scesi dall’albero sono vissuti sulla Terra appena settanta miliardi di uomini e nel corso della mia breve esistenza la popolazione si è moltiplicata per tre. Oggi siamo sette miliardi, in un solo spaziotempo rappresentiamo il dieci per cento dell’intera umanità transitata sul nostro pianeta. Sette miliardi di persone connesse ventiquattro ore su ventiquattro,
un affollamento che contribuisce al conformismo e che limita l’affermarsi della differenza, dove il genio rischia di passare per un pazzo e consumarsi inutilmente come tale. Ma non era una pazzia l’uomo che vola di Leonardo o la conquista della Luna preconizzata da Von Braun?».
Ci facciamo poche domande?
«Non ce ne facciamo abbastanza. Avremmo bisogno di rincorrere le idee impossibili, come dicono gli americani. La scienza è un’avventura piena di dubbi, di fallimenti e di momenti di emozioni straordinarie. Molte volte ciò che propone non funziona, dovremmo continuare a chiederci: perché non così? perché non così? Romperci la testa in laboratorio. E, invece, il fallimento non è ammesso. Siamo conservativi, ostinati nel pensare che quello che ha funzionato nel passato continuerà a funzionare nel futuro. Ma il più delle volte è un errore. Ci resta quasi tutto da capire, è la cosa che ci differenzia dalle altre specie. A me piace guardare. Un quadro, un libro, un film, un ingranaggio, non c’è separazione tra il lavoro e il divertimento. Si concentri per qualche minuto sulla cosa più semplice che conosce, scoprirà quanto poco sa di essa».
Rita Levi Montalcini confessò di avere deliberatamente rinunciato agli affetti. La mia sola missione, diceva, è stata la ricerca. La scienza è un mestiere solitario?
«Ho una famiglia, figli e nipoti, un’esistenza normale. Posso dire che la scienza ha illuminato la mia vita. È solitaria l’idea, ma spesso ad essa ci si arriva collegando la propria intuizione al contributo di molti di coloro che ci hanno preceduti su quel cammino. Fu così anche per Galileo Galilei. Alla sua realizzazione poi concorrono molte persone, al Cern ho guidato esperimenti con oltre cento ricercatori. La ricerca è sempre un lavoro di squadra».
Come fisico si è mai sentito straniero in Italia?
«Sono sempre vissuto da italiano all’estero, non ho mai avvertito il bisogno di crearmi un’altra esistenza. Nella cerimonia del Nobel il mio inno è stato quello di Mameli come per Marconi e Fermi. Tutti gli altri fisici italiani premiati a Stoccolma avevano dovuto rinunciare alla loro cittadinanza naturale. Incontro scienziati italiani di primo livello come ruolo e funzioni ovunque vado: negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone, in Australia e in Cile. In Italia è difficile fare ricerca applicata. Mancano strutture e un sistema di carriera semplificato. Quando sono sbarcato all’Università di Pavia i diciassette anni di insegnamento ad Harvard non sono stati presi in considerazione. E mancano soldi, i finanziamenti pubblici sono inferiori all’uno per cento del Pil mentre negli altri grandi paesi europei si sono da tempo attestati al tre come concordato dalle intese comunitarie. È questo, dopo quello del deficit, l’altro nostro grande Problema 3%, quello nascosto».
Sulla soglia degli ottant’anni che cosa va ancora cercando?
«Ciò che ha cercato ogni civiltà, l’inizio della vita. Ha visto, vero? Riceviamo segnali dal Big Bang, ma il novantacinque per cento della massa dell’universo originata nei primi tre minuti della creazione ci è completamente sconosciuto. La grande avventura è arrivare a qualche milionesimo di secondo dall’origine del cosmo. Le immagini più antiche dell’universo che risalgono a trecentomila anni dopo il Big Bang ci hanno rivelato una sua struttura molto uniforme. In laboratorio creiamo delle goccioline di quell’universo per replicare il Little Bang con l’obiettivo di produrre dei protoni uguali a quelli di tredici milioni di anni fa. Ci sono leggi fisiche che pre-esistono alla materia e alla sua evoluzione, un sistema straordinariamente ordinato e privo di qualsiasi forma di caos».
Quanto c’è di divino nella vita, Dio ha davvero detto all’uomo: governa la Terra?
«È una riflessione molto vasta che affronto con una certa umiltà. Esiste la fede e esiste la religione. Io ho una grandissima fede ma non sono tecnicamente un credente. C’è qualcosa che sta sopra di noi, è un ordine delle cose. Chi vuole è libero di pensare che si tratti di Dio. Non c’è molto altro da dire».
Crede esistano altre forme di vita simili alla nostra nelle galassie dell’universo, insomma gli extraterrestri?
«La risposta è forse sì, ma saranno certamente differenti. Anche l’umanità oggi sarebbe diversa se sessantacinque milioni di anni fa un asteroide dal diametro di dieci chilometri non fosse precipitato sulla penisola dello Yucatán che separa il Mar dei Caraibi dal Golfo del Messico provocando una glaciazione che ha eliminato dalla faccia della Terra ogni essere vivente dalle dimensioni superiori ai tre centimetri. La storia è sempre stata cruenta, immagino lo sia stata anche su altri pianeti».
Dopo la morte torneremo a essere nulla, esattamente ciò che eravamo prima di nascere?
«Non so rispondere ma il difetto non mi preoccupa. Né mi preoccupa la mia, di morte. Le cose sono e continueranno a essere, resterà ciò che abbiamo costruito, l’amore che abbiamo saputo offrire, l’amore che abbiamo meritato. Vado avanti come se niente fosse, imparerò quello che ancora riuscirò ad imparare. Come si dice? The show must go on,
ballerò fino al giorno prima di sparire».
Coltiva ancora una follia intellettuale?
«Un rimpianto preventivo. È un enorme peccato che non si vada su Marte con i piedi e la bandiera. La Luna è un sasso, nulla. Marte invece ha tutto: il Nord, il Sud, l’equatore… Senza un motore a propulsione nucleare però non ce la possiamo fare. Il problema non è andare, ma tornare da Marte sulla Terra. E centrarla la Terra… È una lunga storia: bisognerebbe aspettare lassù un anno e mezzo prima di trovare la finestra giusta per la traiettoria Homan di rientro. Eppoi, dimenticavo, ci sarebbe Europa, il quarto satellite di Giove, uno dei pianeti galileiani. Dove ci sono acqua, ghiaccio e ancora acqua sotto i ghiacci, un’altra Antartide. Ah, mi creda, sarebbe un posto fantastico da visitare… se solo ne avessimo il tempo».
Carlo Rubbia è stato nominato senatore a vita il 30 agosto 2013. Dice che l’esperienza nei palazzi politici romani è interessante, anche se la vive come «un alieno che viene dal passato più che dal futuro». Qualche giorno dopo il laticlavio è morta a Ginevra sua moglie, Marisa Romè, madre di Laura, medico, e André, ingegnere. Aveva settantotto anni. Non sempre si può rendere grazie anche ai giorni bui. Mentre mi racconta fugacemente e timidamente di lei — di loro due — i suoi occhi di bambino si smarriscono per il tempo che occorre a pronunciarne il nome.

La Repubblica 23.03.14