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"Gli Usa e l’Ue volti in crisi dell’Occidente", di Gianni Riotta

Quanto tempo è passato dall’aprile 2009 quando il presidente Barack Obama, entusiasta per l’elezione, proclamava a Praga di volere «un mondo in pace, sicurezza e senza armi nucleari»? E quante stagioni son passate dall’aprile 2010, quando nella stessa capitale Ceca, Obama parlava con al fianco l’allora presidente russo Medvedev, definendolo «amico e partner…che condivide l’impegno di cooperazione»? Quanto in fretta America, Europa e Russia hanno logorato le speranze del dopo Guerra Fredda, mentre la crisi Ucraina vede la prima violazione di confini in Europa dalla caduta del Muro di Berlino.

Obama ritorna in Europa, leader ridimensionato dalla forza della Storia, non più Dioscuro infallibile, «anatra zoppa» in minoranza nei consensi, accolto con diffidenza dagli alleati –che hanno detestato la sua performance nel caso dei metadati segreti Nsa-, con preoccupazione dai sauditi, che vedrà in chiusura della missione, delusi dalla Casa Bianca su Siria e Iran. E il Cremlino di Vladimir Vladimirovich Putin gioca sempre lo stesso bluff, mettere alla prova la risolutezza di Usa e Ue, come ai tempi di G.W. Bush in Georgia, scommettendo che l’Occidente reagirà con burocratica impotenza, mascherata da «saggezza diplomatica».

L’annessione della Crimea a Mosca non ha solo offerto agli storici la data finale del «dopo Guerra Fredda», ha anche svelato la debolezza strategica di Washington e Bruxelles. Che hanno sottovalutato la Russia, crollata con il castello di menzogne dell’Urss, l’«Impero del Male» criticato da Reagan, pensando di poter allargare la Nato, dialogare con Pechino, ignorare storia e orgoglio slavo senza timori. In un libro edito da La Stampa nel 1987, che varrebbe la pena di pubblicare online, «Caro Gorbaciov, caro Natta», il grande columnist ex comunista Frane Barbieri discute del giudizio del premio Nobel Solgenitsin: L’Occidente sarà sconfitto, perché insiste nel confronto diplomatico con l’Urss, non comprendendo come il popolo russo, ostile al Pcus e al Cremlino, sia il vero interlocutore. Barbieri è scettico sul messianismo dell’autore di «Arcipelago Gulag», ma il dilemma resta irrisolto. America ed Europa non sanno ingaggiare né «il popolo russo», né il Cremlino. O sopravvalutano Mosca, come la Cia che nel 1978, mentre la studiosa Hélène Carrère d’Encausse già parlava di «esplosione dell’impero sovietico», ancora sfornava cifre mirabolanti su produzione e armamenti Urss, o prendono sottogamba l’orso, come con Putin, scontandone poi la reazione rabbiosa.

Né Obama, né gli europei, né la Nato sanno in realtà come reagire all’attacco di Putin in Ucraina. Obbligati dal Memorandum di Budapest 1994 ( http://goo.gl/d0OSrP) a preservare l’integrità territoriale ucraina (è il patto firmato da Kiev, in cambio della cessione dell’apparato nucleare sovietico), americani ed europei pendolano invece tra un gradasso minacciare sanzioni dal poco effetto, a un pavido richiedere la tutela di contratti e provviste di energia da Mosca, come fanno gli industriali tedeschi, senza pudore, con la Cancelliera Merkel (del resto l’ex premier Schroeder lavora oggi come lobbista per Putin). Il capo militare Nato, generale Breedlove, avverte che Putin ammassa truppe e mezzi corazzati al confine con la Transnistria, altri osservatori parlano di manovre ai confini ucraini, ma l’esperto di sicurezza europea Christopher Chivvis conferma al Council on Foreign Relations: è impossibile una reazione militare per sostenere Kiev, il Pentagono da anni non lascia neppure discutere piani simili per non irritare Mosca.

È dalla caduta del Muro di Berlino che europei e americani non hanno una comune strategia. Nel 2004 la Commissione Esteri della Camera dei Deputati Usa mi invitò con altri analisti, c’era Radek Sikorski oggi ministro degli Esteri polacco, per discutere di intesa atlantica, dopo la rottura in Iraq. A rileggere quel dibattito al Congresso ( http://goo.gl/Lw3lLd) sgomenta la distanza che s’è aperta. Gli europei sognano di prolungare lo status quo perduto dopo il 1945, gli americani, illusi di poter fare «pivot», guardare all’Asia anziché all’Europa, non sanno coprire le due opposte frontiere.

Quel che resta della scialba intesa Washington-Bruxelles si estenua nella trattativa Ttip, il patto di commercio e investimenti atlantico che non si firma mai, non per intoppi su tariffe e dazi, superabilissimi, ma per opposizione culturali su produzione, scuola, mercato. In Italia il blog di Beppe Grillo considera Ttip «pura follia» e lo dipinge come una piovra con cilindro e sigaro Avana che opprime il mondo; negli Usa la leader «no global» Lori Wallach è certa che «con il Ttip vogliono ucciderci»; in Francia il filosofo Pierre Manent spiega che «il libero commercio impigrisce».

L’Europa erede di De Gasperi, Adenauer, Schuman, democrazia, mercato, pace, era sicura dei propri valori condivisi, l’America erede di Roosevelt, Kennan, Kennedy, democrazia, mercato, sicurezza, altrettanto radicata nella propria tradizione. Oggi l’Occidente non è sicuro di se stesso, non ha coraggio morale, spirito di sacrificio, orgoglio culturale. Per questo Putin gioca d’azzardo, per questo la Cina sta a guardare, diffidente, mentre Usa ed Ue si baloccano tra diplomazia inane e mobilitazione militare impossibile, nell’angoscia di una mossa spericolata del Cremlino che li riporti, di botto, a Cuba 1962, così lontani dalla Praga magica di Obama 2008.

La Stampa 24.03.14