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"Una seria democrazia per i beni culturali", di Pierluigi Panza

La cultura della conservazione sta riscoprendo gli abecedari. Ne sta pubblicando uno, a puntate, la rivista «Ananke» (edizioni Alinea) nei suoi numeri del 2014 e ne pubblica un’altro lo sorico dell’arte Tomaso Montanari per minimum fax (Istruzioni per l’uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà , pp. 128 e 9). Segno che si vogliono fissare dei paletti nel settore.
I lemmi dell’abecedario di Montanari declinano le sue posizioni: difesa dell’articolo 9 della Costituzione, affidare allo Stato la tutela dei beni, sottrarre il patrimonio dalla sfera del turismo e contenere l’intervento privatistico. Una visione che Montanari ritiene controcorrente, perché in un arco costituzionale che va da Forza Italia a Matteo Renzi l’Italia punta sulla «petrolizzazione» dei beni e sulle slot-machine come veltroniana zecca per finanziarne la custodia (salvo poi costruire macchine mangiasoldi tipo il Maxxi). Forse controcorrente, ma certo non isolata, visto che Montanari è sodale a quell’élite intellettuale (Settis, Zagrebelsky) ostile al cambiamento stigmatizzata sul «Corriere» di domenica scorsa da Ernesto Galli della Loggia.
Credo si debba condividere il richiamo centrale del libro: i beni storico-culturali hanno come valore principale quello educativo e non quello intrattenitivo; tanto che, all’inizio degli anni Settanta facevano capo al ministero della Pubblica istruzione e non a quello del Turismo. Successivamente, la perdita d’importanza dello studio delle arti nella scuola è andato di pari passo con la cementificazione, la corruzione nella gestione dei beni e, aggiungiamo, l’iperprotezione sindacalizzata dei lavoratori del settore e un consumo culturale oscillante tra banalizzazione e snobismo radical-chic.
Ma per capire fino in fondo il rapporto tra Costituzione (che fissa un condivisibile principio sul patrimonio) e sua applicabilità oggi, bisogna fare i conti, fino in fondo, con alcuni dati. Cinquant’anni prima della nascita della Costituzione, quando da circa un secolo si era andata imponendo la cultura della conservazione, la popolazione mondiale era un miliardo e mezzo e l’Europa, con 400 milioni di abitanti, controllava circa il 90% dei commerci e stava conferendo identità alle proprie nazioni anche ampliando i musei statali. Quasi settant’anni dopo la Costituzione, la popolazione mondiale si aggira sui 7 miliardi (solo un decimo in Europa), nuove potenze controllano il mercato globale, le maggiori concentrazioni finanziarie non sono in Europa e favoriscono la destrutturazione delle identità nazionali in favore di sovranazionalità (Europa, Nazioni Unite). E l’Italia ha messo in valigia oltre duemila miliardi di debiti. La critica militante fa bene a ribadire i principi, ma la politica non può eludere questi scenari.
Credo pertanto che il nuovo abecedario dei Beni culturali debba ribadire che il modo d’essere che l’Italia propone al mondo è quello di continuare a vivere in un territorio della bellezza e della memoria, di volerlo custodire e comprenderne il senso, che non è riducibile alla sua digitalizzazione (archivi digitali, musei digitali…). Comprendere dunque che gli Uffizi non sono il Louvre, che il nostro è un patrimonio diffuso, ma anche che una buona nuova architettura può sorgere nei centri antichi — aspetto che agli storici dell’arte continua a rimanere troppo «postmoderno».
Per ottenere ciò, c’è bisogno di una rinascita civile che parta dagli individui — che poi si fanno comunità e anche Stato —, di un aiuto extranazionale, dell’appoggio alle sovrintendenze che sono enti utili e con validi combattenti (Montanari cita il caso di Gino Famiglietti). Ben vengano il crowdfunding e il taglio alle spese militari, anche se l’amico Obama ha visitato il Colosseo e poi chiesto di acquistare gli F35. Utile anche l’invito ai media di trattare l’argomento con serietà e specificità, non come orpello di moda o camera di compensazione di interessi lobbistici. È giusto richiamare a mostre di ricerca; tuttavia anche l’intrattenimento è un gradino di avvicinamento all’educazione e pure le fiction sull’arte sono utili. A meno che vogliamo epurare anche Shakespeare e Verdi e fare della filologia la misura di tutte le cose. Salvo poi scoprire imbarazzanti letture waburghiane o paradossali attribuzioni da parte di insigni storici d’arte.

Il Corriere della Sera 03.04.14