attualità, pari opportunità | diritti, politica italiana

"Se chiudere i confini toglie futuro ai giovani", di Carlo Bastasin

Ogni giorno vediamo i difetti dell’euro e dell’Europa. Ma uscire dall’euro non significa prendere le distanze dai problemi che denunciamo. Significa invece negarsi i mezzi di affrontarli e porvi rimedio. Significa fare il gioco di chi prospera in una società chiusa, grazie alle proprie rendite di posizione. Significa in ultima istanza favorire la casta. La stessa che ha prodotto un debito pubblico enorme negli anni Settanta e Ottanta, che pesa oggi su di noi e che peserà ancora in futuro. Infatti, se c’è qualcuno che dovrebbe ribellarsi a chi li invita ad abbandonare l’Europa o l’euro, sono i giovani.
Di tutte le accuse all’idea europea, la più penetrante è che sia un progetto delle elites per le elites. Perché è un’accusa vera, ma non veritiera. Perché il progetto visionario di uomini senza seguito, armati della speranza nel ragionamento, voleva proprio smontare le gerarchie feudali che tenevano le società europee immobili dentro confini nazionali che erano anche paludi morali.

La risposta italiana all’apertura dei confini è stata invece quella di allargare la palude. Se c’è una radice degli speciali problemi italiani, andrebbe cercata negli anni Novanta quando il paese, sfinito dal debito, ha avuto paura di aprirsi e non ha capito la profondità del cambiamento portato dalla moneta unica. Nel terreno dell’economia, l’euro stava irrigando dal basso una silenziosa trasformazione di mentalità, ma le implicazioni politiche dell’euro sono rimaste avvolte nella nebbia della nostra infantile inconsapevolezza. Abbiamo fatto finta di nulla. Anche tra le forze dell’economia la chiusura del paese ha prevalso. Mentre la Germania raddoppiava la quota dell’export sul pil, noi abbiamo pensato di difendere le mura, puntando invece sui servizi interni: oltre il 70% del valore aggiunto ma solo il 5% dell’export italiano. La quota di profitti dei servizi professionali è diventata 5-6 volte più alta che in Francia, in Benelux o in Scandinavia, con margini di profitto che salivano oltre il 60 percento. L’economia “introversa”, quella isolata dal mondo, è diventata più forte e quindi più influente culturalmente. Non a caso si è stretto un rapporto con la politica locale raramente sano. La crescita del paese non era certo il primo obiettivo per la casta.
Si è infatti gonfiata l’economia “invisibile”, un gentile eufemismo per vari gradi di illegalità. Tra il 2005 e il 2008, in un paese che aveva perso la volontà di crescere, il peso dell’economia sommersa è aumentato del 6,6% del pil. Ecco chi vuole spegnere la luce, confidando nelle paure di chi gli si fa attorno spaventato e, come avviene a chi ha paura degli spazi, è colto da un’ansia che interrompe la formazione del ricordo e inceppa la capacità di apprendere dai propri errori. Si vuole allora solo sfuggire dalla realtà: dissociarsi.
Dissociarsi non significa solo uscire dall’euro, ma negare gli altri. Quale distanza da chi ricordava che cosa fosse l’Europa del Novecento e riteneva chiaro il suo dovere di riscatto: diventare il luogo naturale in cui la nostra responsabilità nei confronti degli altri non viene dopo di noi e dopo la nostra identità, ma ne è l’elemento fondante. Dà al senso di noi, a quel bisogno che qualcuno chiama identità, non solo la direzione, ma come diceva Emmanuel Levinas, uscito da un campo di concentramento, il significato dell’orientamento.
Era talmente poco ideologica l’avventura dell’euro, che esso ha cercato di unire un’Europa priva di ogni strumento indispensabile all’influenza ideologica: né una lingua comune, né un’opinione pubblica europea, né mezzi di comunicazione comuni. Mancano in Europa una mentalità comune, una partecipata mediazione degli interessi politici, meccanismi di comunicazione e di legittimazione indispensabili a riempire il “vuoto repubblicano”. Nondimeno l’euro, questo medium prosaico – il primo davvero continentale – pur corrispondendo a interessi materiali, ha continuato a creare il bisogno di migliore politica, È a causa delle difficoltà evidenziate dall’euro, non certo per merito delle nostre virtù, che oggi vediamo una pubblica amministrazione inefficiente e mal governata a cui i cittadini, risvegliati dall’ipnosi del debito e delle svalutazioni, sono diventati insofferenti. Reagiscono con severità ai fallimenti dello Stato fin da quando l’introduzione della moneta unica è avvenuta nell’assenza di controllo sugli speculatori che hanno manipolato abusivamente i prezzi. È la lezione dell’euro sulla qualità del mercato e dello Stato ad aver armato i cittadini contro i lussi castali della politica, delle lobby o di imprese fallimentari.
In questo senso la vicenda dell’euro non si è manifestata con la prevalenza dell’economia sulla politica, bensì di una politica funzionale all’agire individuale anziché su politiche che poggino sull’ideologia sia di partito sia nazionale. L’euro ha cioè corrisposto a una metamorfosi della politica che già si manifestava a livello nazionale. La connotazione negativa della politica, propria della dittatura – sotto la quale «si diventa politici quando si comincia a pensare» -, si è estesa nelle democrazie europee nella forma di una diffusa intolleranza al fatto che, in sistemi sociali sempre più complessi, attraverso la politica, pubblico e privato vengano abusivamente schiacciati l’uno sull’altro. Dietro questo disagio si è fatta strada una visione fattuale della politica che in ogni campo favorisce la funzionalità e la solidità di scelte collettive che agevolano l’agire individuale.
Il caso dell’euro che consente e stimola l’integrazione europea, non per volontà della politica – che si accontenta di un ruolo protezionista – ma nel mettere in comunicazione gli individui, in tal senso davvero animali politici, è macroscopico. Ma corrisponde a un sentire che, almeno dalla caduta del Muro, sa riconoscere per esempio che la giustizia politica non è mai giustizia, l’informazione soggetta alla politica non è mai informazione e così via per la cultura, il mercato, i commerci, la finanza, fino alla gestione del risparmio, cioè alla scelta individuale tra consumo presente o futuro. In tutti questi ambiti, per via dell’apertura dei confini nazionali, la politica nazionale, la politica chiusa, ha perso capacità di definizione autonoma. Il ruolo che ne viene apprezzato e che funziona è quello di intermediazione. Non nel senso banale di comporre e compensare interessi sociali diversi, bensì in quello di regolare, stimolare e verificare l’interazione tra sfere dell’agire individuale e collettivo che danno forma alla società e al suo futuro con la stessa legittimità della politica. Così era l’obiettivo della moneta unica, che non determina la libera scelta degli attori sociali, ma tiene aperta a essa la prospettiva della diversità, un’apertura al cambiamento continuo. A patto di volerlo affrontare consapevolmente. Perché euro o non euro, alla negazione della realtà e al rifiuto del futuro da parte di una società, non ci sarà mai rimedio.

Il Sole 24 Ore 09.04.14