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"Se il volontariato ti cambia il curriculum", di Leonard Berberi

Se il volontariato ti cambia il curriculum «Decisivo per i giovani»

Di solito finisce in fondo al curriculum. Alla voce «altre attività». Ma è un elemento sempre più importante. A volte decisivo in un colloquio di lavoro. Perché il volontariato è sì un’esperienza non retribuita, ma a sentire «cacciatori di teste» ed esperti delle risorse umane per molte grandi aziende italiane e multinazionali è una realtà valutata positivamente. Non è un caso se negli ultimi mesi decine di enti locali hanno messo a disposizione uffici e siti web per «certificare» le attività «informali». Un documento da allegare al proprio curriculum vitae con le indicazioni sulla durata e sulle attività non profit svolte.
Il «modello» restano gli Stati Uniti. Lì il lavoro gratuito per la collettività è pratica comune. E tra i giovani diventa una voce da aggiungere alle attività svolte per presentarsi, bene, all’ammissione all’università o a un colloquio di lavoro. «Anche da noi il volontariato sta diventando un elemento importante nella selezione del personale», spiega Paolo Citterio, presidente nazionale dell’Associazione direttori risorse umane (Gidp). «Chi ha fatto attività senza scopo di lucro dà la sensazione di avere un passo diverso, sia a livello organizzativo che emotivo». Tanto che, rivela, «di fronte a due giovani candidati a un posto di lavoro le imprese mi chiedono di vedere chi ha fatto anche volontariato». «Oggi le società, anche quelle con ricavi a nove o dieci zeri, vanno a vedere cosa hai fatto di socialmente utile», continua Citterio. E, per una volta, il confronto con gli altri Paesi non ci vede in coda alla classifica. «Siamo nella media, abbiamo recuperato negli ultimi anni».
La tendenza è confermata anche da Andrea Castiello d’Antonio, consulente del lavoro e management. Che però precisa: «Il peso del volontariato nel curriculum dipende molto dal tipo d’impresa. Ci sono società incentrate sulla competitività che non guardano se hai fatto qualcosa di socialmente utile o no. E ce ne sono altre che a volte fanno del non profit un elemento discriminante durante i colloqui». In quest’ultimo caso — continua l’esperto — «pur trattandosi di attività non retribuite all’impresa interessa molto l’aspetto motivazionale che ha spinto il candidato a fare qualcosa senza ricevere in cambio denaro».
«Più la realtà non profit è strutturata, più l’attività svolta all’interno viene valutata e apprezzata dalle imprese e dai “cacciatori di teste”», ragiona Maria Cristina Bombelli, fondatore e presidente di Wise Growth, società che si occupa di analizzare la diversità in azienda. Motivo? «È più facile che in queste realtà il candidato abbia sviluppato competenze organizzative, manageriali e di rapporto con le persone che possono essere utili per la società che vuole assumere».
«C’è ancora molta strada da fare per raggiungere il livello americano, ma ci stiamo avvicinando», avverte Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Statale di Milano e visiting professor in management alla California Polytechnic State University. Il punto di svolta, secondo Solari, sarebbe quello di iniziare da piccoli. «Negli Stati Uniti ci si abitua già dalle scuole elementari a impegnarsi nel volontariato. La stessa cosa bisognerebbe fare, ma davvero, anche in Italia: non concentrandosi su attività di sensibilizzazione, ma strutturando un percorso fino all’ultimo anno di università». Perché, continua il docente, «per chi ricerca il personale quelle attività inserite nel curriculum diventano una spia importante per l’azienda: se si mettono insieme volontariato e il tempo impiegato, per esempio, per laurearsi si può avere un’idea delle capacità organizzative del candidato». Ma, avverte Solari, senza esagerare. «Le aziende vedono molto cosa uno ha fatto e per quanto tempo. Soprattutto: come l’ha fatto».
Leonard Berberi

Il COrriere della Sera 10.04.14

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