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"Donne, impegniamoci per cambiare l’Europa", di Sara Ventroni

L’Europa non è solo uno spazio. L’Europa è tempo: é il qui e l’ora delle nostre esistenze. L’Europa siamo noi. E ci siamo dentro fino al midollo. Non serve a nulla maledire l’austerità, abbaiando davanti allo specchio. Mordendoci la coda. Le donne lo hanno capito da tempo. La crisi economica è dentro la carne viva delle relazioni, private e politiche. Venerdì scorso, il convegno internazionale «Uno sguardo di genere per una nuova Europa», organizzato dalla Fondazione Nilde Iotti, ha disposto sul tavolo della discussione le questioni vitali. Tanto per dire: sulla crisi mondiale esplosa dal 2008, Judith Astelarra, docente di sociologia a Barcellona, è stata molto chiara: siamo obbligati – noi donne e noi uomini – a ridefinire, proprio tra uomini e donne, il triangolo economico di base: Stato-mercato-famiglia. Una triade che va rivista, sotto il profilo simbolico, ma soprattutto politico. Non ci sono alibi. Il nesso tra la mancata implementazione delle politiche di lavoro delle donne e il ripensamento della Comunità europea in una nuova ottica di genere, è essenziale per avviare l’uscita dalla crisi.

Ma le donne sanno anche che non si può ricominciare, ogni volta, da capo. A quarant’anni dall’esplosione del neofemminismo, è arrivato il momento di dire – fuori di retorica – che studi, dati e report devono diventare patrimonio comune per ripensare le politiche europee. L’esclusione delle donne dal lavoro, gli indici di denatalità e l’assenza di nuove forme di welfare costituiscono, senza tema di smentita, gli elementi-chiave per comprendere il tasso di depressione economica dell’Italia e, a partire da questi, per immaginare delle soluzioni efficaci.

Le carte parlano, ma non bastano. Abbiamo i papers su “Gender Equality Index”, i “Divari Retributivi di genere” mentre gli or- mai celebri cinque punti della “Strategia per la parità tra donne e uomini 2010-2015” della Commissione Europea, sembrano ancora lettera morta.

Non stiamo parlando di questioni di nicchia. Di empowerment rosa. O di strategie lobbistiche al femminile. Parliamo dello sviluppo economico del Paese in una nuova visione basata sulla differenza sessuale. I dati parlano chiaro: se ne se esce solo insieme, uomini e donne. Questo è il senso del monito di Christine Lagarde, presidente del Fondo Monetario Internazionale, all’Italia.

Il nesso tra fallimento delle politiche di austerity, come scrive Francesca Marinaro, e il mancato sviluppo di una piena promozione di gender equality (lavoro, retribuzione, welfare) indica chiaramente che il principale motivo di mancata crescita non è solo il disimpegno per una promozione strategica nazionale, ma il mancato adempimento dei programmi europei.

Libertà, uguaglianza e sicurezza sono i pre- supposti della nostra cittadinanza comunitaria. Ora, più che mai, in vista delle elezioni di maggio, è necessario ridefinire i modelli di inclusione sociale, di cittadinanza, di cura. Di quel complesso rapporto che coinvolge in modo inedito privato e pubblico, ridefinendo ruoli e responsabilità di Stati, cittadini e mercato.

Così lontana, così vicina, l’Europa è già le nostre vite. Noi apparteniamo all’Europa quanto lei appartiene a noi. Nulla è più facile che regredire a individualismi, a localismi, a frazionismi. Nulla è più facile, nella crisi, che racimolare consenso in nome del furore di chi si sente escluso da tutto, tranne che dalla rabbia.

Proprio per questo dobbiamo andare oltre la disperazione, spezzando i nessi causali tra austerità e declassamento; burocrazia e populismo; rigore e rancore. Il grande sogno politico di un’Europa di giustizia e di pace non può essere certo infranto dal conio di una moneta divenuta, suo malgrado, simbolo del nostro irreversibile decadimento.

Certo, le cose non vanno male: vanno malissimo. Ma noi siamo qui e non possiamo sottrarci. Non basta enumerare dati, affastellare glosse contro gli esiti funesti di decenni di neoliberismo. Le donne lo dicono da tempo: prima di rifare L’Europa dei numeri, occorre ripensarla dalle sue fondamenta di civiltà: in quella differenza, politica e umana, che lega i popoli e le vite quotidiane di quelle donne e di quegli uo- mini che chiamiamo, con orgoglio, cittadini europei.

L’Unità 14.04.14