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La crisi di Piombino è un caso europeo", di Patrizio Bianchi

Tutto il mondo dell’acciaio è entrato da tempo nell’altoforno della crisi e sembra inevitabilmente costretto ad una lenta cremazione. A Piombino, nel giorno in cui è annunciata la chiusura delle lavorazioni a caldo, arriva però l’accordo tra governo e Re-ione per un ridisegno dell’intera area industriale, per porre in sicurezza il territorio, bonificare i terreni, risistemare la viabilità, rendere più funzionale il porto.
Le risorse poste in campo dal governo e dalla Regione permetteranno ai lavoratori di mantenere aperto lo stabilimento, sostenere i redditi e quindi mantenere viva una città che ormai nei decenni ha visto a più riprese crisi aziendali che anche qui diventano crisi personali, umane, civili. Dobbiamo tuttavia ricordare che il tema di una politica industriale per l’intero comparto dell’acciaio resta del tutto aperto e per sua dimensione non può essere affidato alla sola azione della Regione e del governo nazionale. Il 13 giugno dello scorso anno la Commissione Europea presentò al Parlamento lo schema di un Piano d’azione per portare fuori dalla crisi la siderurgia. Questo piano si basava sul principio che la nuova siderurgia europea dovesse necessariamente presentarsi contestualmente competitiva dal punto di vista economico e sostenibile da quello ambientale. Si ricordi che il carbone e l’acciaio furono i settori su cui nacque il primo abbozzo di Unione europea, dato che proprio il controllo della estrazione del carbone e della produzione di acciaio – emblemi stessi del capitalismo imperialista del primo Novecento – era stato fra le cause che avevano portato alla rovina dell’Europa nelle due guerre mondiali.
Negli anni ottanta la siderurgia fu sul baratro di una crisi senza ritorno, perché già allora appariva evidente che in Europa sussistevano industrie nazionali, non coordinate fra loro che, riorganizzandosi individualmente, mantenevano capacità produttive che con le nuove entrate da parte dei paesi emergenti determinavano sovracapacità ingestibili. Il piano di allora, che portava il nome del Commissario Davignon, permise di congelare una situazione che dopo trenta anni si ripresenta con caratteri di criticità per tutto il comparto europeo. Secondo i dati dell’Unione europea, a livello mondiale oggi ci sono circa 540 milioni di tonnellate di sovracapacità produttiva, a fronte di una dinamica industriale che ha spostato molta della domanda di acciaio verso Oriente e verso Sud. In Europa l’accesso di capacità produttiva è di 80 milioni di tonnellate su 217 installate.

Dopo anni di deindustrializzazione, assunta come fatale, oggi la stessa Commissione Barroso scopre in extremis il bisogno di un rinascimento della manifattura in Europa, come fattore essenziale per lo sviluppo dell’intero continente, dandosi come obiettivo – per l’ormai imminente 2020 – di riportare dal 15 al 20 % del Pil europeo le attività manifatturiere. Per raggiungere questo obiettivo diverrà cruciale il ridisegno della industria siderurgica europea. Innanzitutto in termini di innovazione e di formazione delle risorse umane. In Europa diventa necessario realizzare prodotti ad alto valore aggiunto, con tecniche che riducano il costo delle materie prime (molte di riciclo), di energia ed emissioni di CO2. L’intero apparato della ricerca europea viene così chiamato in causa per permettere la realizzazione di produzioni effettivamente competitive e sostenibili, così come è evidente che gran parte dei lavoratori che rimarranno, e auspicabilmente entreranno nel settore nei prossimi dieci anni, dovranno avere competenze largamente diverse da quelle attuali.

La nuova Commissione europea, che risulterà dalle prossime elezioni, dovrà gestire il nuovo Piano europeo d’azione per la siderurgia, mettendo in campo tutti gli strumenti per un rilancio, che comunque richiederà una dura negoziazione a livello internazionale per una riduzione concordata degli eccessi di capacità; si pensi che ben 200 milioni di sovracapacità sono localizzati in Cina. Per giungere alla attuazione rapida del Piano europeo, il nostro paese deve disporre al più presto di un suo piano d’azione, per poter dimostrare come l’Europa, al di là delle tante banalità sentite in questi giorni, sia l’unico livello possibile per la ristrutturazione ed il rilancio dei settori cruciali per la crescita. In alternativa l’industria europea, compresa l’industria tedesca, sarebbe solo condannata ad inseguire le successive crisi, nella speranza che il crollo di un operatore permetta agli altri di sopravvivere fino alla successiva crisi.

Avendo affrontato la crisi di Piombino con questa assunzione collettiva di responsabilità, diviene ora necessario delineare un quadro di politica industriale, in cui all’Europa si chieda non solo un qualche finanziamento in più, ma si chieda di essere il soggetto politico adeguato a questa sfida globale.

L’Unità 25.04.15