attualità, memoria

"Cefalonia, l’ultima verità", di Corrado Stajano

Più di settant’anni dopo pare di sentire ancora l’odore del sangue nel leggere il libro di Hermann Frank Meyer, Il massacro di Cefalonia (Gaspari). Si rimane sopraffatti da una nera cappa di violenza e di morte tra le pagine dolorose e angoscianti di questo saggio minuziosamente documentato che raccontando nudi fatti è un terribile grido contro la guerra e la sua follia.
Nella bella isola del mar Ionio, tra gli ulivi e i mandorli, le odorose ginestre, i fichidindia, i campi coi muretti a secco, le piazzette dei paesi che rammentano il nostro Sud, i vecchi seduti sulle panchine della villa, il giardino pubblico, si è consumata nel settembre 1943 una strage che ha disonorato per sempre l’esercito di Hitler: «Uno tra i più terribili crimini commessi dalla Wehrmacht nel corso del secondo conflitto mondiale», scrive Meyer.
A Cefalonia si avverte la contraddizione tra la natura innocente e morbida, ma che inganna i suoi figli, e la furia dell’uomo, l’odio, la vendetta. L’isola è antica di bellezza, di storia, di cultura, di poesia, non lontana dal luogo natale di Ugo Foscolo — Zacinto mia, «O materna mia terra» — , a un braccio di mare da Itaca, il paradiso perduto del divino Ulisse dove l’eroe omerico, quando finalmente arrivò in patria dopo le sue infinite peripezie, «baciò le zolle dono di biade».
Supera ogni macabra immaginazione quel che accadde a Cefalonia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, nella violazione di ogni legge del diritto internazionale e dell’onor militare, tralasciando l’umana pietà. Furono assassinati dai nazisti migliaia di soldati e di ufficiali italiani della divisione «Acqui», nelle cave di pietra, a ridosso dei costoni rocciosi, nei valloni trasformati in piazze d’armi, lungo gli argini che i plotoni d’esecuzione fecero diventare tirassegni. Lasciati marcire, bruciati — montagne di cadaveri, ossa nauseabonde —, sepolti dai greci per i quali gli italiani, negli anni passati, non erano stati «la brava gente» della leggenda bugiarda e assolutoria.
Nei decenni la bibliografia su Cefalonia è stata nutrita. Quel massacro della Wehrmacht, bavaresi, austriaci, altoatesini comandati da ufficiali di educazione prussiana divenuti nazisti efferati (molti di loro dopo la guerra tornarono a far parte della Bundeswehr), colpì gli storici, i narratori, i giornalisti. Anche perché autori di quell’eccidio furibondo non erano state le SS, le falangi del nazismo.
Il massacro di Cefalonia — la puntigliosa prefazione di Giorgio Rochat mette in rilievo l’ampiezza della documentazione del saggio e la grande onestà di Meyer — è l’opera totale, definitiva su quell’eccidio, per la visione d’insieme della guerra nei Balcani e per la cura ossessiva del particolare.
Imprenditore di successo, l’autore del saggio divenne uno storico di prim’ordine per motivi affettivi. Suo padre, ufficiale pagatore in un reparto tedesco, nel marzo 1943 fu rapito e ucciso dai partigiani. Il figlio, dopo la guerra, andò in Grecia per sapere del padre, ne riportò in patria i resti e raccontò in un libro la sua odissea. In quell’occasione raccolse molte notizie e documenti e seppe di un reparto d’élite della Wehrmacht, la 1ª divisione da montagna, che si era macchiata di orribili delitti. Nella ricerca arrivò così a Cefalonia.
Meyer, in questo saggio che esce postumo in Italia, ha analizzato libri e documenti, è entrato nella burocrazia della guerra e dei processi del dopoguerra, ha letto e ascoltato i radiomessaggi, i rapporti, gli ordini, le dichiarazioni giurate, i diari dei combattenti.
Che cosa accadde a Cefalonia. La sera dell’armistizio, per ordine del capo di stato maggiore della Wehrmacht, il generale Alfred Jodl, entra in vigore il piano «Achse» che prevede l’occupazione della Grecia presidiata dalle truppe italiane e il disarmo del regio esercito: non ha importanza che in Grecia le divisioni italiane siano sette e quelle tedesche quattro, con gli organici ancora incompleti.
Antonio Gandin, che dal giugno del 1943 comanda la divisione «Acqui» — 525 ufficiali, 11.500 sottufficiali e soldati —, non è un generale qualunque: dal 1940 è stato capo del reparto operativo del Comando supremo, un incarico di grande responsabilità. Il comandante dell’XI armata italiana, il generale Carlo Vecchiarelli, suo superiore, tratta subito la resa coi tedeschi, cerca di ottenere, senza riuscirci, condizioni onorevoli. Gandin rifiuta di obbedire al suo ordine di arrendersi.
Mentre i tedeschi, a Cefalonia, dove sono numericamente assai inferiori — un reggimento, 2.000 uomini —, danno a Gandin un ultimatum per il disarmo della divisione, il Comando supremo da Brindisi invia un radiogramma che ordina alla divisione «Acqui» di resistere «con le armi at intimidazione tedesca di disarmo at Cefalonia et Corfù et altre isole».
Gandin temporeggia. Poi i tedeschi attaccano dalla parte di Argostoli, il capoluogo dell’isola. Gli italiani resistono nonostante 72 Stukas sgancino 32 tonnellate di bombe. I tedeschi si ritirano, Gandin non sa sfruttare il momento favorevole, non incalza i tedeschi sconfitti e sbandati: arrivano i rinforzi, ma una motozattera viene affondata dall’artiglieria italiana nella baia di Vatsa, con morti e feriti.
È un momento di euforia. Tra il 13 e il 14 settembre il generale Edoardo Gherzi, con il consenso di Gandin, invia un messaggio radio ai comandanti di battaglione della divisione: i soldati vogliono combattere o vogliono cedere le armi? Unanimemente, ufficiali e truppa, manifestano la loro decisione di battersi.
Dopo la guerra susciterà scandalo e sarà strumentalizzato quello che viene chiamato referendum perché è fuori dalle regole di un esercito. Meyer non gli dà importanza, lo definisce «una sommaria consultazione di reparti». Giorgio Rochat, nel 2006, scriverà della difficoltà di capire come venga giudicata insubordinazione e rivolta quella richiesta di combattere anche se espressa in forma poco ortodossa.
(Tutto avviene in giorni di catastrofica emergenza, subito dopo l’armistizio, test del crollo dell’Italia fascista, mentre il re, il capo del governo Badoglio, i generali sono scappati da Roma imbarcandosi a spintoni sulla corvetta Baionetta che li porta a Brindisi. Cefalonia non è l’inizio della Resistenza, se non per un gruppo di giovani ufficiali, ma è di certo il doloroso rifiuto della prepotenza).
Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, in visita a Cefalonia il primo marzo 2001, rende onore ai caduti della divisione «Acqui», i soldati con le mostrine gialle: «Decisero di non cedere le armi, preferirono combattere e morire per la patria tenendo fede al giuramento».

***
A Cefalonia le cose precipitano. Esiste un ordine di Hitler fuori di sé per il tradimento: tutti gli italiani dell’isola devono essere fucilati. I tedeschi sono riusciti a far sbarcare i rinforzi, due compagnie di fanteria, due batterie di artiglieria, un battaglione alpino. Ma è l’aviazione tedesca a risolvere il conflitto martellando l’isola. La volontà di combattere degli italiani svanisce, in contraddizione con il famoso referendum. I tedeschi, soldati nati, sono inferociti contro gli ex alleati. La fedeltà, anche per i criminali, è un valore sommo per il mondo germanico. Gli italiani, in superiorità numerica, si arrendono ovunque, le tonnellate di bombe degli Stukas sono micidiali.
«Gli ammutinati», «i franchi tiratori», come erano definiti gli italiani, vengono fucilati subito dopo la cattura. Dal generale Gandin all’ultimo soldato. Quasi quattromila morti sull’isola, 1.346 in mare sulle navi affondate.
Il generale Hubert Lanz, il comandante della 1ª divisione da montagna, che a un certo punto avrebbe potuto dar l’ordine di smettere di uccidere, nel lezzo nauseante dei cadaveri in decomposizione, vide tutto e tutto sentì. Ma al processo di Norimberga disse di non aver visto e sentito nulla. Condannato nel 1948 a 12 anni, rapidamente amnistiato, nel 1951 era già un uomo libero.
Resta il nudo elenco dei luoghi della morte innocente: Kardakata, Dilinata, Pharsa, Argostoli, Razata, Frankata, Lakithra, Santa Barbara, Capo San Teodoro, Capo Munta, Cimitero di Drapanos, Capo Lardigò. E poi la Casetta Rossa, il posto martire di 350 ufficiali a Troianata, dove furono fucilati nella schiena seicento soldati in un vallone che ricorda Portella della Ginestra.

Il Corriere della Sera 27.04.14

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