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"Un insulto alla verità", di Michele Smargiassi

Cinque minuti di applausi in piedi sono il tributo che si riserva agli eroi. Agli uomini che hanno arricchito l’umanità con un dono che va oltre il dovere: un dono speciale del proprio pensiero, della propria generosità, della propria fatica, persino della propria vita. QUALE mai dono speciale alla comunità hanno premiato, quale eroismo umano hanno applaudito ieri sera i presenti al congresso del Sap? I tre poliziotti celebrati pubblicamente in questo modo hanno già avuto, definitivamente, dalla comunità, quel che i giudici hanno deciso fosse giusto per loro: una condanna definitiva a tre anni e sei mesi per eccesso colposo nell’omicidio colposo di Federico Aldrovandi, un ragazzo che dalla sua comunità, quella sera, aveva solo un grande bisogno di aiuto.
Da una platea composta in massima parte, si suppone, di “servitori dello Stato”, ci si doveva attendere altro. Il rispetto, anche nel dissenso. E non stiamo a farne una questione di libertà d’opinione, per favore: ora i dirigenti di quel sindacato, senza apparente imba-
razzo, cercano di spiegare la lunga, vergognosa scena trionfale sostenendo che gli applausi erano una protesta contro quella che ritengono una condanna ingiusta. Oppure un gesto di “solidarietà umana” verso i colleghi condannati.
Non giriamoci attorno. Quel che si è visto ieri a Rimini è semplicemente, limpidamente, indiscutibilmente una cosa rivoltante sul piano umano. Il “ribrezzo” di Patrizia Moretti, mamma di Federico, non ha nulla di esagerato. Prima che poliziotti, giudici, giornalisti, siamo esseri umani. Nessuno che se lo sia ricordato, ieri? Nessuno che abbia pensato che si applaudono i vivi sulla tomba di un ragazzo morto senza alcuna colpa, sul dolore di una madre che solo per la sua tenacia, quella sì da applaudire per ore, è riuscita ad ottenere giustizia? Non c’era un solo uomo provvisto di coscienza, ieri, che si sia vergognato dell’eco che avrebbe avuto quella standing ovation nell’anima della madre di un figlio morto fra le mani di chi lo doveva salvare? La stessa madre che si è già sentita troppe volte insultare e contestare per le pubbliche piazze, anche da alcuni addetti a quella che la
legge continua a definire “pubblica sicurezza”?
Federico Aldrovandi quella sera aveva solo bisogno di aiuto: bisogna ripeterlo una, due, mille volte, a chi proprio non lo vuole capire. Aveva bisogno di servitori dello Stato, cioè servitori di tutti noi, e anche di Federico, addestrati professionalmente e preparati umanamente a contenere la sua agitazione. Ma ha incontrato le persone sbagliate. Ha incontrato professionisti della “pubblica sicurezza” che non hanno saputo
metterlo in sicurezza, che non sono riusciti a fare di meglio, di fronte alla sua crisi, che trattarlo come un criminale.
Coincidenza, da quello stesso palco riminese, poche ore prima, il capo della Polizia Pansa aveva annunciato nuove “regole di ingaggio” per la Polizia, chiare e vincolanti regole che stabiliscano come i servitori dello Stato in divisa debbano comportarsi per tutelare la “pubblica sicurezza”. Pensavamo in tutta franchezza che quelle regole fossero da sempre la base del mestiere. Che fosse già ovvio, per esempio, che manganellare o calpestare un manifestante già a terra, qualunque cosa abbia combinato fino a un attimo prima, rientra solo nelle logiche della guerriglia, della rabbia, del colpo-su-colpo, e con il mestiere del poliziotto non c’entra un accidente. Malpagati? Male addestrati? Stressati da turni impossibili? Tutto vero. Ma sono cose che reclamano soluzioni, non applausi. Quel che è stato portato ieri in trionfo, invece, è un’altra cosa. Uno spirito di corpo impenetrabile come una corazza, una rivendicazione di insindacabilità, la difesa corporativa dei “nostri” contro chiunque si metta di traverso: che sia un giudice o una mamma spezzata dal dolore. Per fortuna, se i “servitori” non sono riusciti a pensare, lo Stato ha fatto rapidamente la scelta giusta, l’unica possibile, con la telefonata di solidarietà del capo del governo a mamma Patrizia, prima ancora che si esprimessero il ministro dell’Interno e il capo della Polizia. Lo Stato ha dato un segno. Ora forse resta da capire cosa significa “servitore”.

La Repubblica 30.04.14