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"Nella trappola degli uomini verdi", di Paolo Garimberti

A furia di giocare al gatto con il topo, Vladimir Putin ha ottenuto il suo scopo: rovesciare l’onere della responsabilità per quanto sta accadendo nell’Ucraina russofona. Ieri quella che sembrava un’ipotesi estrema, la guerra civile, è diventata un rischio reale, con sparatorie, morti, feriti, blocchi ferroviari.
Ora Mosca, per bocca del portavoce del Cremlino, può permettersi di accusare il governo di Kiev di rendere impraticabili gli accordi di Ginevra, che la Russia ha concluso con lo scopo di violarli attraverso i suoi “uomini verdi” massicciamente infiltrati nell’Ucraina orientale per sobillare e provocare, fino a realizzare il suo scopo, la reazione del topolino ucraino per assestargli una zampata.
L’Ucraina non è la Crimea e Putin sa benissimo che non può annetterne una parte con un’invasione e un’occupazione militare. Non solo per ragioni politiche e diplomatiche (evocare lo spettro della terza guerra mondiale è certamente esagerato, ma la tensione con l’Occidente e con la Nato salirebbe a livelli di calore insopportabili per tutti). Ma anche per ragioni tecniche. L’esercito russo, nonostante l’aumento massiccio delle spese per la difesa e la ristrutturazione organizzativa avviata dal ministro della Difesa Serdyukov e proseguita dal suo successore Sergej Shoigu, risente delle disfunzionalità dell’Armata Rossa accumulate negli anni della agonia dell’Unione Sovietica, che emersero in modo clamoroso durante la campagna di Georgia del 2008. Manca di flessibilità, è ancora basato sul vecchio modello della preminenza di carri armati (ben 2.550) e fanteria meccanizzata (7.360 unità, secondo le stime più recenti) e su una leva molto macchinosa. Le operazioni di intervento rapido sono impraticabili e quelle di un’invasione massiccia ancora più complesse. Ha detto un esperto di dottrina militare: «Invadere l’Ucraina orientale per la Russia sarebbe come avventurarsi in un nuovo Afghanistan » (che fu, come molti ricorderanno, il Vietnam dell’Urss, finché Gorbaciov non decise di ritirarsi).
Il ricorso a quelli che gli ucraini hanno chiamato ironicamente “i piccoli uomini verdi”, paracadutisti e spetsnaz ( reparti speciali addestrati per operazioni di infiltrazione, sabotaggio e talvolta killeraggio), era dunque una scelta tecnica per il Cremlino. La tesi russa che si tratti di «forze di autodifesa », formatesi spontaneamente tra la popolazione delle città russofone, non ha retto più di pochi giorni all’analisi dei loro armamenti (tra cui il nuovissimo Kalashnikov AK-100) e perfino dei volti di alcuni di loro, già ripresi in precedenti azioni dal 2008 in poi. L’obiettivo era quello di balcanizzare l’Ucraina orientale, di renderla simile alla Bosnia degli anni 90, di far sì che laddove etnie diverse hanno convissuto per anni in armonia si scatenasse l’inferno delle provocazioni, dell’occupazione dei palazzi del potere, degli scontri etnici (a Odessa, come accadde durante le guerre balcaniche, sono scesi in campo gli ultrà del calcio, secondo un modello istituito nei Balcani dal celebre comandante Arkan). Da ieri lo scopo sembra raggiunto e, come accadde nel secolo scorso, l’Occidente, l’Europa in primis, è tardo nelle reazioni e soprattutto incapace di trovare una linea comune. Quando Mitterrand volò dimostrativamente a Sarajevo dopo un fallimentare vertice della Ue sui Balcani disse: «L’Europa non ha gli strumenti politici, e ancor meno quelli militari, per fare qualcosa». Che cosa ha oggi di fronte alla balcanizzazione dell’Ucraina?
Qualcuno ha suggerito a Barack Obama, che appare pateticamente impotente di fronte all’improntitudine di Putin, di riesumare la vecchissima dottrina del containment elaborata da George Kennan all’epoca della guerra fredda per fronteggiare la minaccia sovietica. Ma allora l’Occidente era compatto, la leadership degli Stati Uniti indiscussa e l’economia era compartimentata tra l’Occidente capitalista e l’Oriente comunista. Oggi l’Occidente, se ancora si può usare questo concetto, è diviso («si fotta l’Unione europea », ha detto proprio a Kiev una dei vice di John Kerry), la guida americana è fortemente contestata (alle Nazioni Unite al voto sull’Ucraina perfino Israele non ha partecipato, India e Sud Africa si sono astenute), e la globalizzazione dell’economia rende la riesumazione del containment assolutamente impraticabile.
Le sanzioni preoccupano di più le multinazionali europee e anche americane che il Cremlino o gli oligarchi russi. I quali hanno molti modi per aggirarle. Per esempio investendo nel mattone. Il mercato immobiliare di Londra, secondo un’inchiesta del Financial Times, è fiorentissimo proprio nelle zone preferite dai russi (è di ieri la notizia che un miliardario, russo o ucraino, ha comprato una casa da oltre 130 milioni di sterline). E perfino dal calciomercato giungono segnali che gli oligarchi non sono per niente inquieti se il Chelsea di Abramovic ha comperato Diego Costa, stella dell’Atletico Madrid,
40 milioni di euro.
In conclusione, l’Ucraina scivola drammaticamente verso la guerra civile e nessuno (ad eccezione di Putin) sa che cosa fare per impedirlo. Perché per anni ci siamo illusi che la Storia fosse finita e che sarebbe stato impossibile riscriverla, mentre un ex colonnello del Kgb pensava che la fine dell’Urss fosse «una grande tragedia dell’umanità». Perché ci siamo autoconvinti che avremmo vissuto in un mondo diverso, senza più conflitti e senza cortine di ferro mentre qualcuno al Cremlino stava riesumando la dottrina del 19mo secolo del conte Uvarov: «Ortodossia, Autocrazia, Nazionalismo ». Perché, infine, gli egoismi nazionalisti, soprattutto in Europa, hanno prevalso sugli interessi collettivi. Esattamente come due decenni fa, quando implose la Jugoslavia e nessuno fu capace di prevenire e ancora meno di intervenire.

La Repubblica 03.05.14