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"Stavolta lo Tsunami si chiama PD", di Massimo Giannini

Dunque non tutto è perduto, in questa Italia stremata e fino a ieri sospesa tra il sogno autarchico della “decrescita felice” di Grillo e l’incubo tecnocratico dei commissari della Troika europea. C’è ancora una grande speranza, per smitizzare il primo e scongiurare il secondo. E quella speranza si chiama Pd. Il Pd di Matteo Renzi che, se i risultati della notte saranno confermati, ha conquistato le europee con un plebiscito senza precedenti nella storia repubblicana (se non quello della Dc di De Gasperi negli Anni ’50). Lui stesso aveva caricato questo test di significati politici, trasformando il voto per il Parlamento di Strasburgo in un referendum sulla sua premiership nel governo e sulla sua leadership nel partito, e inseguendo Grillo sul terreno scivoloso di una sfida a due, micidiale e potenzialmente esiziale. Ebbene, in un’Europa dove sfondano tutte le estreme euro-fobiche, e dove i popoli puniscono tutti i governi in carica (ad eccezione della solita Merkel), Renzi questa sfida l’ha stravinta e Grillo, addirittura doppiato dal Pd, l’ha strapersa.
INSIEME alle europee, ha vinto il referendum su se stesso, consolidando il suo governo e riportando il suo Partito democratico non solo oltre la soglia a cui l’aveva lasciato Walter Veltroni nel 2008, ma addirittura oltre quella in cui Enrtico Berlinguer aveva portato il Pci nel 1976, cioè ben oltre il 34,4%. Un successo clamoroso, se solo si considera che il Pd alle politiche del 2013 era crollato al 25,4%, perdendo per strada ben 3,4 milioni di elettori rispetto al 2008. Ora, in queste europee che sanciscono la fine di Berlusconi, franato intorno a un misero 16%, non solo li ha recuperati tutti, ma ne aggiunti altrettanti, tutti nuovi di zecca.
Renzi può ora festeggiare quello che nessun leader della sinistra italiana ha mai ottenuto, e cioè una “vocazione maggioritaria” forse finalmente compiuta. L’acrobata sul filo ha rischiato tutto, com’è nella natura della sua vocazione al comando, ispirata alternativamente al “tutto e subito” e al “tutto o niente”. Ha vacillato più volte, nel vuoto delle slide proiettate a Palazzo Chigi e nell’abisso di scandali bipartisan come l’Expo. Tuttavia, ancora una volta, non solo non è caduto, ma alla fine è arrivato indenne dall’altra parte. Ha venduto “tanta roba”, in queste settimane, talvolta eccedendo in qualche televendita. Ma la scommessa “obamiana” sul “Paese migliore”, sull’Italia che ce la può fare perché crede nel cambiamento e non si rassegna alla paura e al declino, è risultata vincente. Anche a costo di qualche forzatura tribunizia nei comizi elettorali, o di qualche copertura precaria nei conti pubblici.
La “mancia” degli 80 euro di bonus Irpef ha sicuramente pagato, non solo nella busta dei lavoratori ma anche nell’urna della classe media, sulla quale il premier ha puntato tutte le sue carte nella “fase uno” dell’azione di governo, nonostante i velenosi e pericolosi conflitti con la Cgil. Ma ha pagato anche la percezione di una “rottura culturale”, che va oltre gli apparati da rottamare e gli impegni inevasi del cronoprogramma. L’affermazione del Pd al Nord dimostra che il partito della sinistra riformista è finalmente in grado di rompere i confini geografici della dorsale rossa ex-comunista (che minacciavano di ridurlo a una sorta di Lega degli Appennini), e di tornare a parlare anche al resto della società italiana. Dimostra che vasti settori della borghesia produttiva, del ceto imprenditoriale e del lavoro autonomo si stanno riconciliando con una sinistra ancora informe e in cammino, ma comunque moderna perché già post-ideologica e post-fordista. Capace, su temi come il Welfare e il lavoro, di uscire dalla ridotta di quella che Policy Network definisce “la socialdemocrazia difensiva”. E capace, su questioni come la crescita e il Fiscal compact, di condizionare l’agenda europea in vista del semestre di presidenza italiana e della formazione della nuova Commissione Ue.
Grillo, per contro, sembra aver totalmente sbagliato i suoi
pronostici. “Noi non vinciamo, stravinciamo”, aveva detto a Piazza San Giovanni venerdì scorso. Non solo non c’è stato il “sorpasso”. Ma Grillo sembra scivolare al di sotto della soglia del 26% raggiunta nel 2013, perdendo per strada quasi 2 milioni di elettori. Se è così, questa è una disfatta per il capocomico, che aveva smerciato queste elezioni come l’assalto al cielo, preannunciando la cacciata di Napolitano e la caduta di Renzi. Alle politiche del 2013, quando M5S fece il botto, conquistando 8,5 milioni di voti pari al 25,6% e diventando il primo partito alla Camera e l’unico di respiro nazionale (in testa in 50 su 109 province), parlammo di “tsunami”. Ebbene, oggi il vero tsunami è quello del Pd. L’onda grillina rifluisce, e resta “anomala”. Non sfonda gli argini della “democrazia dei partiti”. Grillo e Casaleggio restano i catalizzatori di un voto di contestazione, cioè protestatario, che non diventa un voto d’opinione, e dunque identitario. Il grande imbonitore ha tentato un “salto” strategico, moltiplicando i comizi in tutte le piazze della Penisola, e invadendo tutti i talk-show televisivi compreso il salotto democristiano di Vespa.
“L’insurrezione” è fallita. Se questi risultati saranno confermati, M5S resta la seconda forza politica del Paese. Si riafferma come il “bidone aspira-tutto” che vogliono i suoi padri fondatori. Ma il “tutti a casa” permanente, il “Parlamento di zombie” e la suggestione dei “processi del popolo” restano un virus che attecchisce solo sulla parte più arrabbiata del corpo sociale. Lo “sfondamento al centro” non ha funzionato, ed è un bene per l’Italia che sia così. Ma ora resta, e semmai diventa ancora più inquietante, l’anomalia di un blocco grillino che esprime un’alterità ancora più irriducibile rispetto al “sistema”, e che appare sempre meno spendibile per qualunque sbocco alla governabilità, se non quello di un assurdo ed utopico “100% dei consensi”. E questo non è certo un bene per l’Italia.
Ora che ha ottenuto quello che voleva, Renzi non ha davvero più alibi. Il successo alle europee, se sarà confermato, è per lui un battesimo politico, che finalmente lo purifica dal peccato originale di non aver conquistato il governo attraverso la via maestra del suffragio popolare, ma grazie alla porta di servizio della “manovra di palazzo”. Il premier ha ora la legittimazione che cercava. Gli italiani gli hanno concesso la fiducia che chiedeva. Le elezioni anticipate, e ventilate ad ottobre, si allontanano e si perdono in un orizzonte più sfocato. La legislatura riprende fiato. Se questo è il senso del voto del 25 maggio, Renzi ha una chance formidabile. In Europa, per “cambiare verso” alle politiche del rigore con un Pd che diventa il primo partito nella famiglia del Pse. In Italia, per fare davvero le “riforme strutturali” di cui parla continuamente da 80 giorni, ma che gli italiani, a questo punto, vogliono finalmente toccare con
mano.

La Repubblica 26.05.14