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"Il riformismo diventa maggioranza", di Ezio Mauro

Dunque è “un’Italia di pensionati”, si suppone vecchia, impaurita e stanca, che ha sbarrato la strada alla trionfale avanzata di Beppe Grillo e al suo forcone già pronto ad infilzare in un colpo solo Napolitano e Renzi, aprendo così il primo processo del popolo decretato da un comico contro tutta la classe dirigente del Paese, in nome dell’unica rivoluzione al mondo proclamata sui divani bianchi di Vespa: solo che gli italiani, finito lo spettacolo e spaventati dal programma, hanno cambiato canale e la ghigliottina è rimandata.
È tipico del populismo autoipnotico dare la colpa agli altri dei propri errori e non saper leggere le ragioni della propria sconfitta. E infatti Silvio Berlusconi nasconde il suo declino dietro una campagna «dolorosa e sofferta per la condizione di uomo non libero», dimenticando che questa riduzione della libertà di movimento (non politica) è causa dei reati che ha commesso, accertati e sanzionati da tre Corti della Repubblica, dunque deriva interamente dalla sua responsabilità, non da una congiura.
L’identica reazione spaesata e fuori dalla realtà indica il parallelo declino dei due populismi (uno di destra, l’altro anche) che si contendevano la guida del grande malessere italiano sotto la pressione di una crisi senza fine, della rabbia dei cittadini per una politica inconcludente e perennemente inceppata, del disamore per una democrazia sempre più fondata sulle disuguaglianze e sui privilegi, dov’è saltato il tavolo di compensazione dei conflitti che ha tenuto insieme per anni — attraverso il lavoro, e i diritti che ne conseguono — i vincenti e i perdenti della globalizzazione.
Precipitato Berlusconi nel loop terminale di una parabola ormai asfittica, il rischio concreto era che i due populismi si passassero la staffetta, nella scorciatoia urlata e mimata nei palchi di tutt’Italia da chi promette soluzioni semplici a problemi complessi, in nome di un rifiuto non solo dell’Europa e dell’euro ma della politica tout court e di tutti i suoi rappresentanti. In una falsificazione che li vuole tutti uguali e tutti ugualmente colpevoli in attesa dell’angelo vendicatore grillino, smarrendo così la percezione politica dell’anomalia berlusconiana del ventennio e della prova che questo Paese ha attraversato, trasformata in avventura goliardica trasgressiva.
E invece gli elettori hanno rifiutato questo scambio al ribasso tra il voto e l’antipolitica che scommetteva sull’inferno quotidiano in nome dell’aldilà grillino. Invece di prendere a calci il sistema, come suggerivano gli imprenditori della rabbia, hanno preferito provare a cambiarlo. E il cambiamento, ecco la scommessa del voto, passa attraverso il governo, e quella parola antica che sembrava travolta dall’ondata montante del risentimento nazionale, il riformismo. Non solo: per la prima volta nel dopoguerra il progetto riformista supera il 40 per cento, doppia il livore grillino, riduce ai minimi termini Berlusconi e il partito che dominò il Paese umiliandolo. Improvvisamente, acquista un significato quella vocazione maggioritaria con cui era nato il Partito Democratico. E anche quella costruzione politica che traghettava oltre la stagione del Muro le due tradizioni dei cattolici democratici e dei comunisti (questi ultimi con il loro rendiconto tardivo e incompiuto) prende finalmente corpo come spina dorsale del sistema e si affaccia all’Europa come protagonista.
Renzi è l’attore di questa svolta. Ha probabilmente combinato metodi da opposizione e cultura di governo, ha sicuramente unito la pancia e la ragione degli elettori, ha certamente esagerato negli annunci e nelle promesse. Ma ha indicato un approdo di cambiamento governato ad un Paese eternamente in transito, nevrotizzato dagli estremismi berlusconiani e grillini, e dalle loro pulsioni diversamente unite in una radicalità di destra, con una “feroce gioia” comune contro le istituzioni repubblicane. È sorprendente che gli elettori abbiano accettato questa proposta politica nel mezzo di una crisi infinita e pesante, che ormai penalizza l’Italia più degli altri Paesi proprio per i ritardi e le ambiguità dei governi che si sono succeduti.
In tutto il continente l’antieuropeismo dilaga, triplicando le sue forze, con un testacoda spettacolare in Francia dove il socialismo del presidente Hollande scende sotto la legge di gravità e la nuova-vecchia destra lepeniana diventa primo partito. L’euroscetticismo ha ragioni fondate, con la divaricazione tra il potere (la potestà di fare le cose) e la politica (la capacità di scegliere le cose giuste da fare), le istituzioni lontane e meccaniche, l’Unione percepita soprattutto come un vincolo, senza che venga più percepita la legittimità di quel vincolo. Anche qui l’Italia poteva scegliere la scorciatoia cieca del gran rifiuto, per finire a galleggiare libera ma disancorata in mezzo al Mediterraneo. Ha scelto invece di provare a cambiare l’Europa. Cioè, nella stagione trionfante dell’antipolitica, ha scelto la politica.
Incredibilmente, l’Italia può provare ad essere agente del cambiamento europeo usando due strumenti che fino a ieri non aveva: la leva comunitaria della presidenza di turno dell’Unione, nel secondo semestre dell’anno, e la leva politica del Pse, di cui il Pd è oggi il primo partito. E qui diventa decisivo l’approdo al Pse di un Partito Democratico che per tre segreterie aveva galleggiato nell’indistinto europeo, bloccato dai vari Fioroni democristiani e da vecchi complessi comunisti, come se non fosse ben chiaro qual era la famiglia delle forze riformiste e di progresso europee. Invece bastava volerlo, bastava farlo. Adesso il Pse va usato per cambiare il codice europeo della crisi, aggiungendo le priorità assolute della crescita e del lavoro all’austerità, sotto la minaccia
della deflazione.
Renzi ha dunque l’Europa come prima partita, la più ambiziosa. Le riforme sono la seconda, e dovrà strappare sulla legge elettorale, per chiudere al più presto, e trovare invece un compromesso ragionevole sul futuro del Senato, salvandolo ma superando definitivamente il bicameralismo perfetto. La
terza sfida, è il suo partito. Nato come costruzione a tavolino, ora può diventare una comunità, un’agenzia culturale di cambiamento, un luogo di forte mobilità politica e di selezione di nuove classi dirigenti, sbarrando per sempre la strada ai troppi Greganti e agli eterni Penati, promettendo di ripulire le liste alle prossime elezioni, di cambiare la legge sulla corruzione, di fare la guerra alle mafie. Da qui, e non solo dalla riduzione delle auto blu, passa la modernizzazione del Paese.
Questa infatti è la vera posta in gioco. Chi — come dice la vignetta di Altan — mastica amaro a sinistra per la vittoria di Renzi e parla di ritorno della Dc, non legge la nuova geografia politica italiana che oggi Ilvo Diamanti illustra: la vittoria al Nord dopo la chiusura difensiva nella dorsale apenninica, la riconquista del Piemonte dopo la Sardegna e insieme all’Abruzzo, il boom di Milano, Verona, Varese, Como non sono solo segnali territoriali ma dislocazioni di ceti e soggetti sociali che vogliono un cambiamento perché l’arretratezza del Paese è una palla al piede per le loro attività. La sinistra può dunque parlare ad un centro non politico o ideologico, ma di interessi, che dopo l’illusione del laissez faire berlusconiano e l’inutile ruggito grillino può essere per la prima volta coinvolto in un progetto di cambiamento.
Guai se il cannibalismo professionale, l’aridità storica e l’albagia abituale del gruppo dirigente democratico disperdessero questa occasione nazionale. Guai se Renzi non capisse, proprio oggi, che per cambiare un partito bisogna rappresentarlo e rispettarlo. Guai se Grillo continuasse a sotterrare i talenti del consenso elettorale (ridotto) invece di spenderli in una sfida aperta e trasparente per le riforme, passando dalla politica recitata e minacciata alla politica reale. Resta Berlusconi, al bivio della successione tra la democrazia (un congresso, un vero confronto interno, le primarie) e la dinastia, un familiare cui trasmettere uno scettro spezzato e il conflitto d’interessi intatto. Sceglierà questa strada, semplicemente perché è quella che più garantisce la sua persona: e avvererà la profezia secondo cui tutto ciò che ha creato, lo distruggerà.

La Repubblica 27.05.14