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"Puntiamo sull’economia della conoscenza", di Pietro Greco

L’economia basata direttamente sulla scienza fisica ha prodotto in Italia 118 miliardi di euro di fatturato nell’anno 2011, pari al 7,4% del Prodotto interno lordo (Pil) del nostro Paese. Dando impiego a 1,51 milioni di persone, pari al 6,1% del totale dei lavoratori italiani. Ciascuno di questi lavoratori, dunque, ha prodotto valore aggiunto per 78.100 euro, con una produttività del 22% superiore a quella media italiana. I 118 miliardi di euro sono stati realizzati per il 49% nell’industria manifatturiera, per il 22% nel settore trasporti, per il 16% nei servizi di pubblica utilità (energia, acqua, rifiuti) e per l’8% negli altri servizi, ricerca scientifica compresa. A tutto questo, sostengono gli analisti mobilitati dalla Sif, vanno aggiunti circa 2 milioni di posti di lavori creati indirettamente dai settori economici fondati sulla fisica per una quotadi Pil difficile da definire. È questa, ridotta in pillole, l’analisi che una società privata indipendente, la Deloitte, ha realizzato per conto della Società Italiana di Fisica (Sif), in analogia a due indagini sull’impatto della fisica sull’economia dell’Unione Europea e del Regno Unito realizzate dalla medesima società di analisi economia, rispettivamente, nel 2013 e nel 2012. Lo studio è stato consegnato sotto forma di rapporto dal titolo The impact of physics on the Italian economy: l’impatto della fisica sull’economia italiana. Certo, l’idea di fondo – vediamo cosa succederebbe se all’economia italiana venissero sottratte tutte le conoscenze fisiche – si presta a qualche critica. Sia perché non è facile definire cosa è fisica e cosa non lo è. Sia perché nella definizione rientra anche la fisica più classica,cosicché non tutti i settori analizzati – oltre cento, ancorché ponderati (in ciascuno si è pesata l’incidenza della fisica) – sono realmente innovativi. Tuttavia l’analisi ci offre tre spunti di riflessione. Il primo è che la conoscenza scientifica non ha solo un (inestimabile) valore culturale. Perché ci dice come va il mondo naturale. Ma ha anche un valore economico. Tangibile. Nel 2011 la fisica ha creato ricchezza per quasi 120 miliardi di euro. Mentre gli investimenti italiani negli Enti pubblici di ricerca che hanno finanziato la ricerca realizzata dalla Deloitte per conto della Società italiana di fisica (Cnr, Inaf, Infn, Inrim e Centro Fermi) non raggiungo il miliardo di euro. Sarebbe errato dire che questi investimenti sono ad altissima rendita (per 1 euro investito se ne ricavano 120), perché la fisica su cui si basano i settori economici analizzati è il frutto di un lavoro di ricerca che dura da secoli. Tuttavia esso ci fornisce un’indicazione di cosa si intende (e di quanto rende) l’economia fondata sulla conoscenza. Il primo messaggio è: investire in ricerca fisica conviene. Anche da un punto di vista economico. Perché se ne hanno grandi ricadute a breve, medio e lungo termine. Sarebbe interessante realizzare indagini analoghe per i settori economici che si fondano sulla matematica, la chimica, le scienze biologiche, le scienze umane. Tuttavia l’indagine pubblicata dalla Sif Non è un inno alle sorti magnifiche e progressive dei settori economici italiani che si fondano sulle conoscenze fisiche. Intanto perché ci dice che nel 2011 questo settore è arretratodicircail7%rispettoall’anno precedente. Molto più degli altri settori economici. Il che significa che l’economia italiana tende a perde colpi soprattutto nei settori considerati strategici, quelli fondati appunto sulla conoscenza. Mal’analisi comparata con il resto d’Europa è impietosa. Nell’Unione, infatti, i settori economici che si basano sulla conoscenza fisica producono una ricchezza superiore al 15% del Pil complessivo: il doppio, in media, dell’Italia. Con punte che superano il 25% in Germania e in Scandinavia. E questi settori impiegano oltre il 13% della forza lavoro europea, contro il 6% dell’Italia. In soldoni: le industrie fondate sulla fisica nell’Europa centro-settentrionale hanno prodotto,nell’anno 2010, ricchezza per oltre 3.000 miliardi di euro. Nell’Europa meridionale solo un sesto: 500 miliardi di euro. Naturalmente un settore economico vale l’altro. E qualcuno potrebbe dire:cosa importa?Noi siamo forti in altri settori,dove magari non contano le conoscenze fisiche, ma il senso estetico. L’obiezione sarebbe valida se questa indagine – se anche questa indagine – non avesse dimostrato che la produttività per addetto nell’industria fondata sulla fisica è quasi un quarto più alta della media. E in tutta Europa i salari pagati in chi lavora nelle imprese ad alto tasso di conoscenza aggiunto (sia essa conoscenza fisica o di altra origine scientifica) sono in media del 30% più alti che negli altri settori. In altri termini, l’indicazione è forte. Ed è triplice. Se vogliamo bloccare il dumping sociale (salari sempre minori, diritti sempre più sfumati), se vogliamo invertire il trend al ribasso della domanda interna (generata da salari sempre più bassi), se vogliamo combattere la disoccupazione – soprattutto giovanile, soprattutto qualificata – anche in Italia dobbiamo puntare sull’economia della conoscenza. Perché, anche in Italia, l’economia della conoscenza paga.

L’Unità 30.05.14