attualità, cultura

"Rai, era meglio un’altra protesta", di Vittorio Emiliani

La domanda di fondo a Matteo Renzi sulla Rai, al di là della richiesta immediata di 150 milioni, è la seguente: quale Rai vuole? Cosa intende fare della Rai? Sottrarla, dice, ai partiti, al governo (in primo luogo al governo, aggiungiamo, dopo l’infame legge Gasparri). Benissimo. Ma allora non serve molto chiedere ad una azienda – perché la Rai lo è ancora – un contributo di 150 milioni. Serve invece rottamare subito la legge Gasparri e sostituirla con un’altra semplice e rapida sul modello inglese o svedese: una Fondazione alla quale vengono conferite le azioni della Rai, una fondazione che sia retta da un gruppo di garanti al di sopra di ogni sospetto, colti e competenti, che a loro volta nominano il direttore generale e il cda. Certo, il modello funziona bene nel Regno Unito anche perché Bbc fruisce di un canone sui 183 euro (quello svedese sale a 232 euro) pagati da utenti che lo evadono solo all’8 %. Ipotizziamo che la Rai abbia il canone Bbc: pur coi suoi 16 milioni di utenti/paganti «fedeli» (altri 9 milioni evadono, circa il 36% delle famiglie), incasserebbe circa 2,9 miliardi di euro. Circa 200 milioni più di quanto ha ricavato nel 2013 fra canone e pubblicità. Di fatto la Rai non avrebbe più bisogno di ricorrere alla pubblicità; potrebbe fare assai più servizio pubblico di quanto non possa e voglia fare oggi con gli spot che per anni hanno rappresentato circa la metà delle sue entrate. Il che l’ha condotta a commercializzarsi, a non rinnovare i programmi, ad avere il pubblico televisivo più anziano. Ma, come ci fa sapere il Cnel, il canone Rai, pur coi suoi modesti 113,7 euro, è «la tassa più detestata dagli italiani». Pensate voi dove arriva la disinformazione.

Matteo Renzi ha quindi una autostrada aperta davanti se vuole «rottamare» la Rai dei partiti e tagliare il cordone ombelicale che la lega al governo. Ha parlato di vendere Rai Way ed ho già ricordato che, in tutt’altra situazione economica mondiale, nel 2001, la Rai aveva già ceduto ai texani di Crown Castle il 49 % di quell’azienda ricavandone 734 miliardi di lire netti. Ma fu poi il governo Berlusconi (e Gasparri per esso) a cancellare quella vendita fruttuosa. Si può quotarla in Borsa, si suggerisce. Certo, senza illudersi però che si tratti di operazioni a breve termine.
Anche il Cda nominato nel 1998 si trovò di fronte a un taglio improvviso e imprevisto – per 200 miliardi di lire – operato dal centrosinistra con l’abolizione, in finanziaria, del canone autoradio che gli utenti della strada pagavano col bollo quasi senza accorgersene. Ma erano altri tempi, altri bilanci. Soltanto una governance dell’azienda autonoma dai partiti può presentare un piano di dimagramento del personale superfluo nonché degli alti e immeritati stipendi e privilegi corporativi, un piano di ritorno alla produzione in proprio in luogo dei troppi e costosi appalti esterni sollecitati per via politica spesso. Ma anche sui numeri del personale Rai, bisogna dare cifre esatte e non gonfiate facendo, anche su giornali importanti, paragoni insensati con Mediaset. Insensati perché non tengono conto, ad esempio, dei dipendenti di Radio Rai e del fatto che l’emittente di Stato produce in proprio più di Mediaset.

Essa è anche appesantita, nel rapporto con governo e partiti, dal ruolo spesso debordante assunto dalla Commissione di Indirizzo e di Vigilanza la quale consente ai partiti di porsi verso la Rai come una sorta di super-consiglio di amministrazione, ben al di là del contratto di servizio e dei suoi compiti. Ed è sbagliatissimo. In Svezia – ci dicono colleghi autorevoli come Ake Malm – la commissione parlamentare, fissati binari e obiettivi di marcia, chiama gli amministratori della Tv pubblica ad esporre i loro programmi e a dar conto dei risultati, ma li lascia operare in piena autonomia. Da noi il legame con la politica viene in quella sede ribadito quasi ossessivamente. L’approccio del presidente del Consiglio alla Rai e a questo sciopero generale dell’11 è stato molto aggressivo. Sa bene che la Rai non è popolare. Per contro però non è con una giornata di sciopero che giornalisti, programmisti, tecnici Rai riusciranno a spiegare al Paese e ai 16 milioni di abbonati cosa vogliono e cosa rispondono a Renzi. Serviva, a mio avviso, uno «sciopero a rovescio»: dedicare cioè molto spazio l’11 giugno – magari una puntata serale di «Chi l’ha vista?» (la riforma) – per raccontare cos’è oggi la Rai, cosa sono i suoi bilanci, qual è il suo pubblico, come l’hanno ridotta i governi Berlusconi, quale riforma vera, profonda, incisiva si vuole, dall’interno, per fare più servizio pubblico, più cultura, più inchieste, un intrattenimento ed uno sport migliori, ecc. Con un giorno di sciopero e qualche comunicato sindacale si risolverà ben poco. E gli abbonati fedeli non sapranno cosa sta succedendo.

L’Unità 03.06.14