attualità, cultura, politica italiana

"La mazzetta riunisce il Lombardo-Veneto", di Alberto Statera

l regno Lombardo-Veneto si è ricomposto duecento anni dopo. Nel nome della corruzione e del malaffare. L’Expo di Milano e, a ruota, il Mose di Venezia. Negli antichi confini del regno asburgico le due più grandi opere d’Italia, quelle che dovevano garantirci il rispetto e l’ammirazione del mondo intero, si saldano in un sistema criminale degno di Al Capone.
IL GANGSTER era spesso citato da Piergiorgio Baita, ex capo della Mantovani, la società che rappresenta il giunto di collegamento tra le grassazioni veneziane e quelle milanesi. “Puoi fare molta più strada — proclamava spesso l’ingegnere citando il ‘Scarface Al’ — con una parola gentile e una pistola, che non con una parola gentile e basta”. La Mantovani di parole gentili e di ricchi omaggi monetari coniugati con le armi da fuoco ne ha distribuiti continuamente: vuoi per garantirsi con un ribasso d’asta del 40 per cento la costruzione della cosiddetta “piastra” dell’Expo — ormai grande evento salvifico sempre più a rischio, se ne saranno espulsi i corruttori — vuoi per ottenere la leadership eterna negli appalti del Mose, le faraoniche paratie delle bocche di porto veneziane, il cui costo da quando sono cominciati i lavori dieci anni fa è lievitato da 1,8 a 5,6 miliardi di euro.
Altro che il Ponte sullo Stretto di Messina, per fortuna ormai obliterato dopo la lunga stagione criminal-megalomane del berlusconismo. Grandi opere, grandi abbuffate. Ma questa, a giudicare dai numeri degli inquisiti (100) e degli arrestati (35), è davvero la madre di tutte le abbuffate della storia recente d’Italia, capace di far impallidire come un giochino da minorenni la Tangentopoli del 1992.
A scorrere i nomi degli uomini e delle donne seduti da anni, secondo i magistrati, intorno al tavolo delle libagioni, si visualizza quasi l’intero album di famiglia del “Sistema
Galan”, che per tre lustri da governatore ha dominato nell’ex Vandea veneta con un apparato affaristico imperiale. “Il Nordest sono io”, proclamò in un libro-intervista autobiografico Giancarlo Galan verso la fine del mandato che da Venezia lo portò con Berlusconi al governo nazionale. Appena eletto in Veneto, per la sua gaglioffa simpatia da venditore di spot pubblicitari fu alternativamente soprannominato “Banal Grande” o “Colosso di Godi”, per via della sua statura e per la propensione agli ozi e ai piaceri della vita (donne, pesca, oca in onto e rovinassi). Poi divenne immantinente il “Doge”, omaggiato dalla corte regale seduta attorno al grande tavolo delle spartizioni: nomine, appalti nei lavori pubblici, nella sanità, in ogni attività nella quale girasse denaro pubblico. Tutti sapevano tutto del malaffare nel regno del Nordest, raccontato in centinaia di articoli di giornale e in alcuni libri, ma nessuno aveva il coraggio di ripeterlo apertamente. Salvo, una volta, Massimo Calearo, ex falco degli industriali vicentini eletto deputato nelle liste del Pd di Valter Veltroni (un errore che all’ex segretario non sarà mai perdonato) e poi accasatosi con Scilipoti, che ci confessò: ”Sugli appalti in regione lavorano tutti appassionatamente”. Tutti chi? Già esisteva un acronimo complicato sui capibanda: “SMAG”. Dove S stava per Sartori, M per Meneguzzo, Mantovani e Mazzacurati, A per Altieri e G, naturalmente, per Galan. Tolto Vittorio Altieri, progettista del regno nel frattempo deceduto, tutti insieme appassionatamente sono finiti ieri nell’inchiesta Mose. Roberto Meneguzzo è il fondatore della Palladio Finanziaria, celebrato dall’informazione economica compiacente come titolare del nuovo “Salotto buono” della finanza veneta e addirittura come “Cuccia del Nordest” da quando ha messo becco nelle grandi partite Generali e Fonsai; la Mantovani sapete già chi è: è la società mangia-appalti del Lombardo-Veneto. Il suo ex capo Baita è già finito in galera mesi fa, ha parlato tanto e ha patteggiato una prima condanna; Giovanni Mazzacurati, padre del bravo regista Carlo, da poco scomparso, è — secondo i magistrati — il “Grande burattinaio” delle tangenti sul Mose come presidente del Consorzio Venezia Nuova fino all’arresto dell’anno scorso. Spiace assai per la memoria di Carlo che favori siano stati elargiti anche a lui, grande promessa del cinema italiano. A piede libero, con il parlamentare Galan, è Amalia Sartori, detta Lia, che Berlusconi presentò in piazza a Vicenza come il futuro sindaco “con le palle” e che invece, trombata, approdò al parlamento europeo, dove ancora siede per un mese. Poi anche “Madame Richelieu”, come la chiamano il macellaio e il salumiere che la servono sotto il suo palazzo vicino alla basilica palladiana di Vicenza, potrà subire l’onta della prigione, dove rifletterà sul suo stesso libro intitolato “In politica da protagonista: manuale ad uso delle donne”. Destino che toccherà a Galan, se la Camera dei deputati non negherà l’arresto. Lui smentisce di aver mai preso soldi. Come al solito. Ma, per cominciare, dovrà spiegare magari chi ha realizzato i milionari lavori di ristrutturazione della sua trecentesca villa Rodella di Cinto Euganeo e la provenienza del denaro che gli girava l’assessore Renato Chisso, antica gloria del partito socialista. Mentre il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, eletto col Partito Democratico, dovrà raccontare dei 450 mila euro che i magistrati lo accusano di aver incassato in contanti direttamente dalle mani di Mazzacurati e di un suo collaboratore. Impresa ardua per l’erede della tradizione etica dell’amministrativista Feliciano Benvenuti e successore di Massimo Cacciari, che per di più dal 2010 non ha dato preclare prove.
Alla “M” del vecchio acronimo SMAG, in verità mancano ancora alcuni nomi. A cominciare dalla reclusa Claudia Minutillo, ex segretaria privata di Galan, detta la “Dogaressa” o la “Dark lady”, poi diventata amministratrice della Fondiaria Infrastrutture, allocata a San Marino, e amministratore delegato dell’Adria Infrastrutture del solito gruppo Mantovani, incaricata secondo i magistrati di ripulire il denaro sporco. E poi quello di Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture e gran pezzo nel “Partito unico degli affari”, tra l’altro protettore politico di Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato alle acque di Venezia.
Le storie da raccontare per spiegare la grande retata di ieri sono infinite e quasi tutte, purtroppo, segnalate da anni nell’indifferenza generale dei pubblici poteri, se non della magistratura che vi lavora da almeno tre anni. Ad esempio quella di Mauro Scaramuzza, arrestato per i contatti con la cosca mafiosa di Gioacchino La Rocca. Responsabile dei cantieri della Fip di Selvazzano di Dentro, di cui è proprietaria la Mantovani di Romeo Chiarotto che ha ricomprato anche le quote di Piergiorgio Baita, ebbe il suo momento di celebrità quando Matteoli con Galan battezzò le nuove cerniere del Mose: 161 ingranaggi da 34 tonnellate l’uno. Ma “l’orgoglio dell’Italia”, come rivendicarono i due politici al soldo, pare fosse alquanto fragile. Il consigliere berlusconiano Giovanni Toti, insieme ad altri, si è affrettato ieri di prima mattina, poverino, a strepitare contro i “giustizialisti”. Ma stavolta, come nell’inchiesta sull’Expo, oltre alle intercettazioni telefoniche c’è una messe di riprese video, il grande film autoprodotto della corruzione nazionale, che probabilmente non lascerà scampo agli accusati. Le telecamere per svelare lo scandalo Expo erano piazzate in grandi alberghi. Soprattutto il “Baglioni”, il “Nazionale”, l’”Esedra”, l’”Inghilterra” di Roma e il “Palace” e il “Michelangelo” di Milano. Ora siamo andati oltre le cinque stelle per il Modulo Sperimentale Elettromeccanico (Mose), al “de Russie” di Roma e al “Monaco” di Venezia. Non si accorse delle telecamere l’ex vice comandante generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante, che pare sia stato immortalato in “cinemascope” nel super-hotel romano con il prodigo Mazzacurati senior.
Così il “mostro” del Mose, come lo chiama Massimo Cacciari, stavolta probabilmente se li ingoierà tutti, documentando per immagini che chi più può più ruba. Così fan tutti quando si aprono le porte alla criminalità diffusa con i “lavori emergenziali”.

La Repubblica 05.06.14