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"Resistere è un dovere", da L'Unità

Di nuovo la grande opera o grandecambiale a scadenza fissa e poi corrotti e corruttori, un sindaco, un ex presidente regionale e parlamentare di Forza Italia, un assessore regionale, un consigliere regionale, magistrati delle acque, un generale a riposo, finanzieri, imprenditori, conti all’estero, campagne elettorali pagate con soldi che transitano da una tasca all’altra, dieci venti trenta trentacinque arrestati, una retata.

Di nuovo. L’osceno spettacolo si ripete e pare la copia di quanto avevamo visto pochi giorni fa, un mese fa, un anno fa. Si può percorrere così di tangente in tangente tutta la storia d’Italia. Il sentimento è lo sconforto, il sentimento è l’amarezza, al punto che al contrario di un tempo quando alla punizione esemplare (alla «gogna mediatica») e allo sdegno popolare si sperava dovesse succedere la catarsi di un Paese intero, ora viene da coltivare l’illusione che sia tutto falso, che abbiano sbagliato i magi- strati, che siano caduti in un colossale abbaglio, che tutti gli inquisiti siano innocenti, giusto per poter dire che non tutto è perduto, che almeno il Mose salvatore dalle acque ha risparmiato se stesso dal malaffare.

Purtroppo, se non questo, mille altri episodi ci costringono a considerare la questione morale al centro dell’esistenza o della sopravvivenza di questo paese. Però l’aveva detto Enrico Berlinguer trentaquattro anni fa, a una Direzione del Pci: «La questione morale è divenuta oggi la questione più importante». Aveva capito e ci aveva ammonito, come ci avrebbero ammonito i giudici che svelarono Tangentopoli, come prima avrebbero dovuto metterci in guardia lo scandalo dei petroli, quello dei mono- poli di stato, quello della Lockheed. Dopo tanti avvertimenti, dopo tante pro- messe e tanti annunci senza conseguenze, la sfiducia è ovvia fino alla resa. Forse ci si deve rassegnare, forse è questo lo stato naturale ed eterno di un Paese come l’Italia, un Paese che, nel genere criminale, conta altri primati tra mafia, ‘ndrangheta, camorra, lavoro sommerso, evasione fiscale, un Paese che s’allarma, si sdegna, che mostra i cappi in Parlamento, che proclama per sé, ma non sa rinunciare alla furbizia quotidiana, perché sa di poter rimediare una giustificazione. Bettino Craxi ci spiegò che il finanziamento illecito ai partiti era una necessità. Ci risparmiò l’ipocrisia, ma durante il suo governo non diede mai un segno, mai un provvedimento che scongiurasse quella “necessità”. Sicuramente non sarebbe bastato. Certo non ci hanno aiutato leggi come quelle ispirate dal pregiudicato Silvio Berlusconi per annacquare, derubricare, prescrivere, non giovano i condoni a scadenza fissa.

Che si debba reagire rischia di essere la volontà di una minoranza virtuosa, oltre i fragori occasionali e inconcludenti. Quanto s’è conquistato altrove (tra pedagogia dell’onestà e dura repressione della disonestà) sembra irraggiungibile da noi. Servirebbe una scossa, grado massimo della scala Mercalli, che scardinasse e cancellasse nella rivoluzione una cultura lassista e “perdonista”, egoista ed edonista, senza doveri e senza coscienza di sé, un rivolgimento che rimettesse al centro la persona al posto del denaro, dell’esibizione, dell’apparenza, del palcoscenico. Troppo? Forse si dovrebbe nutrire un’ambizione simile come un dovere morale.

Il governo in carica, giovane e orgoglioso, cominci dal rilievo che potrebbe porre nelle sue parole alla «questione morale», continui con atti legislativi, che colpiscano duramente e che attribuiscano mezzi adeguati a chi ha il compito di indagare e perseguire, perché le inchieste si facciano, perché i tribunali giungano rapidamente a sentenze, perché le condanne siano pesanti, perché corruttori ed evasori fiscali “paghino” davvero. Una “campagna” come fossimo in guerra? Una “campagna” così per il suo significato di pace e civiltà dovrebbe chiamare in causa i cittadini e per la sua dimensione non solo morale ma anche economica dovrebbe chiama- re in causa, e non per generiche responsabilità, l’universo imprenditoriale, quel mondo che chiede agevolazioni fiscali, regole meno rigide, una burocrazia che non ostacoli, che pretende giustamente riforme, ma che non sa o non vuole riformare se stesso: nella teoria delle tangenti, quelle di vent’anni fa o quelle di Expo o quelle del Mose, di mezzo, inevitabilmente, nella veste del corruttore o del concusso, ci sta l’imprenditore. Qualcuno ha reagito alla mafia, qualcuno per questo atto di coraggio e di civismo, ci ha rimesso negli affari e ci ha rimesso pure la vita. Un modesto imprenditore delle pulizie diede il via, dal Pio Albergo Trivulzio di Milano, all’inchiesta di Mani Pulite. A Milano come a Venezia pare di avvertire solo connivenza. Non sono vecchie solo le facce dei politici e dei trafficanti, facce già viste sono anche quelle di chi semina cemento all’Expo o sul Mose. Speriamo di sbagliarci, che qualcuno ricominci a denunciare, che Confindustria trovi modo di denunciare l’illegalità o le pretese di illegalità, se davvero crede, come dice, nell’innovazione, nella concorrenza, nel futuro insomma. Quale futuro si può costruire a colpi di tangente?

La speranza è che una comunità di nuovo solidale provi a dimostrare che anche in Italia “si può fare”, Grandi Opere o Piccole Opere, senza la tassa in più della tangente (a Torino, per le Olimpiadi della neve, sindaco Chiamparino, e non lo ricorda mai nessuno, ci si riuscì).

L’Unità 05.06.14