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"Le sette regole degli appalti puliti", di Gianluigi Pellegrino

Le infrastrutture sono vitali per l’Italia. Risanamento ambientale, ferrovie, acquedotti. La corruzione avvelena l’aria che respiriamo. Ci presenta un ricatto inaccettabile: rinunciare allo sviluppo o sopportare il cancro. Correggere ciò che non va è ovviamente possibile. Ma mentre si discute dei poteri di Raffaele Cantone bisognerebbe prima evidenziare alcuni aspetti
dell’”anomalia italiana”.
UNO .
La parolina magica.
In Europa, “discrezionalità amministrativa” vuol dire procedure adeguate per opere moderne e complesse. Da noi invece è la parola magica che apre la porta dell’arbitrio. Quando per una grande opera c’è già un progetto esecutivo non modificabile, la discrezionalità non dovrebbe applicarsi. Invece l’aggiudicazione avviene spesso con criteri impalpabili, inutili per l’opera e buoni solo per avere mani libere per
scegliere l’aggiudicatario.
2.
La nebbia sull’esecuzione.
Peraltro sono noti anche i rischi delle offerte con il 50% di sconto. Si punta su varianti e riserve esecutive, con relativi ritardi e lievitazione dei costi. Qui, del resto, si agisce all’ombra di un rapporto negoziale senza più concorrenti tra i piedi, dove ogni intesa corruttiva è possibile. Ma allora è qui che ci vorrebbe un controllo fondamentale da affidare all’Autorità di Raffaele Cantone, che possa dissuadere i partecipanti dal fare offerte anomale.
3.
Se una fotocopia vale miliardi.
Appalti miliardari vengono troppo spesso decisi su aspetti iperformali. È assurdo limitare la concorrenza perché negli atti manca una fotocopia o una firma su tremila. Una parte della giurisprudenza amministrativa sta provando a contrastare questa deriva: ma tocca al legislatore aiutarla.
4.
Le commissioni.
Cantone e la sua struttura possono essere decisivi nella formazione delle commissioni di gara e di collaudo. Organizzare centrali d’appalto, come si sta proponendo in questi giorni, ha senso solo se si garantisce autorevolezza e terzietà.
5.
Quale Autorità sugli appalti?
Matteo Renzi ha detto che l’Autorità di vigilanza sugli appalti ha in realtà vigilato ben poco pur avendo enorme dotazione di mezzi e personale. Si deve allora evitare di dare a Cantone un’arma spuntata. Si tratterà di integrare le due strutture — l’Autorità di vigilanza e quella di Cantone — badando solo all’efficienza dei controlli.
6.
Arginare subito il corrotto.
Il sindaco o il provveditore che affidano l’appalto all’impresa amica non hanno paura di un giudice che emetterà il suo verdetto chissà quando. L’unica cosa che possono temere è un controllo immediato ed efficace. Per questo pretendere dal giudice amministrativo massimo rigore, trasparenza e rapidità nelle sentenze è sacrosanto: ma azzoppare l’intervento immediato o rinviarlo alle calende greche dei tribunali civili non solo viola le direttive comunitarie ma regala un altro via libera a corrotti e corruttori. A dispetto dei luoghi comuni non sono i giudici a fermare le opere ma le polverose stanze dei ministeri. Lì si annidano lunghe trattative ed è lì che dovrebbe intervenire Cantone.
7.
La giungla dei 614 articoli.
La direttiva comunitaria in materia di appalti è di 84 articoli. Ma l’Italia per recepirla ne ha scritti ben 614. L’illusione bulimica che possa normarsi ogni dettaglio della realtà conduce solo a confusione che genera quelle furbizie che si volevano evitare. Cambiare verso vuol dire approfittare delle nuove norme europee del 2014 per recepirle con un codice ridotto almeno di tre quarti.
In conclusione: estirpare del tutto la corruzione è ovviamente un’utopia. Ma provare ad asciugare la palude si può. E oggi, anzi, si deve: per respingere il ricatto di una scelta odiosa tra legalità e sviluppo.

La Repubblica 09.06.14