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"La ricerca virtuosa", di Simona Ravizza

In Italia investimenti fermi all’1,25% del Pil «Eppure Usa, Germania, Corea insegnano che puntare sulla scienza crea ricchezza»

La ricerca fa bene al Pil. Lo dicono gli scienziati che per battere cassa in tempi di crisi hanno deciso di cambiare strategia. In un Paese civile le motivazioni culturali, sociali e di ritorno in qualità della vita dovrebbero essere sufficienti per spingere le istituzioni a scommettere sul futuro: in Italia, però, finora tutto ciò non è bastato per sollevare gli investimenti, fermi all’1,25% del Prodotto interno lordo, contro la media europea dell’1,7%, mentre Stati Uniti e Germania sono intorno al 2,6%. È uno dei motivi per cui adesso gli uomini di scienza sono sempre più impegnati nel dimostrare che investire in ricerca conviene anche economicamente. Le prove sono schiaccianti.
Bisogna cambiare rotta. Gli ultimi dati Istat vedono ancora una volta l’Italia in fondo alla classifica per la spesa in investimento e sviluppo, pari a 19,8 miliardi di euro (cifra onnicomprensiva dei fondi messi a disposizione da imprese, enti pubblici, istituzioni private non profit e università). Nell’Unione Europea — come messo in evidenza anche da Confindustria — l’Italia è al sedicesimo posto, in compagnia di Portogallo, Repubblica Ceca, Spagna, Ungheria, Grecia, Malta, Slovacchia e Polonia. Eppure la ricerca virtuosa è il miglior investimento che un Paese in crisi può fare.
La tesi è sostenuta in primis dall’Ue, che considera l’innovazione il cardine delle sue politiche per favorire crescita e occupazione. Così i Paesi europei sono chiamati a spendere in ricerca, da qui al 2020, il 3% del Pil (1% di finanziamenti pubblici, 2% di investimenti privati). L’obiettivo è di creare 3,7 milioni di posti di lavoro e realizzare un aumento annuo del Pil di 800 miliardi di euro. Numeri da capogiro, ma che trovano una spiegazione nella redditività della ricerca soprattutto sul medio-lungo periodo. Paolo Veronesi, presidente della Fondazione Veronesi, in prima linea nel sostegno alla ricerca, s’affida a un paragone: «La Corea del Sud ha impostato la sua politica economica su ricerca e sviluppo, investendo il 3% del Pil. E mentre nel 1980 il reddito pro capite coreano era un quarto di quello italiano, oggi la situazione si è invertita», spiega l’oncologo che con la Fondazione Veronesi punta soprattutto sui giovani (vengono finanziate 153 borse specialistiche da 27 mila euro l’anno, per cui servono in media mille 5×1000 per sostenere un ricercatore per un anno): «Del resto, i cervelli ci sono e non sono tutti in fuga. Quest’anno sulle 3.600 domande di finanziamento arrivate all’European Research Council sono stati selezionati 312 “top scientist”. Di questi, 46 sono italiani. Solo i colleghi tedeschi sono più numerosi (48)».
Lo scorso 10 dicembre Andrea Bonaccorsi, docente di Ingegneria economico-gestionale dell’università di Pisa, ha tentato di convincere il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del Senato Pietro Grasso che investire in ricerca conviene. L’ha fatto nell’incontro su «Scienza, innovazione e salute» organizzato a Palazzo Madama dalla senatrice a vita Elena Cattaneo. «Le stime esistenti che si sono applicate a ritroso, risalendo dalle grandi famiglie di innovazioni tecnologiche alle scoperte scientifiche che le hanno rese possibili, suggeriscono che le ricerca pubblica può generare un tasso di rendimento annuale del 20-50%. Il che significa che la ricerca pubblica di base si ripaga nel giro di 2-5 anni — sottolinea Bonaccorsi —. C’è poi l’investimento in capitale umano: qui il tasso di rendimento è più basso perché l’impegno pubblico nella formazione di un ricercatore è piuttosto alto (280 mila euro, dalle elementari alla laurea), ma non al punto di annullare i benefici economici, capaci di generare un rendimento del 15%».
Scrive lo scienziato Giuseppe Remuzzi su la Lettura del Corriere : «In Gran Bretagna è stato calcolato che ogni sterlina che lo Stato investe in ricerca biomedica rende 30 penny all’anno all’economia del Paese, per sempre. La Germania, che due anni fa ha tagliato il bilancio federale di 80 miliardi, ha aumentato però gli investimenti in ricerca del 15% e ha investito soprattutto in ricerca biomedica. Perché? Forse sulla scia di un dato sorprendente, quello sul genoma umano: negli Stati Uniti per quel progetto si sono investiti 3,8 miliardi di dollari, il ritorno per l’economia del Paese è stato di 800 miliardi in 13 anni, cioè un dollaro speso ne rende 140».
Bisogna crederci. Chiara Segré, biologa e dottore di ricerca in oncologia molecolare, nonché supervisore scientifico della Fondazione Veronesi, rilancia sul suo blog: «L’Italia ha a disposizione un capitale umano di ricercatori e scienziati da fare invidia al resto del mondo e che rappresenta la chiave per lo sviluppo economico del prossimi decenni. Vogliamo imparare a valorizzarlo?».

dal Corriere della sera