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"Contro Boko Haram gli slogan non bastano", di Tahar Ben Jelloun

La barbarie del movimento criminale nigeriano di Boko Haram è senza limiti. E a fronteggiarla, la tormentata impotenza delle nazioni civili. Il 14 aprile scorso orde di selvaggi hanno invaso il liceo di Chiboc e catturato 276 alunne tra i 13 e i 17 anni d’età, di cui 53 sono riuscite a fuggire. Le altre sono state stuprate e malmenate, in attesa di essere vendute come schiave, per la duplice colpa di essere ragazzine e di frequentare un liceo: due crimini insopportabili per il campione di ogni categoria di barbarie e regresso.
Quest’orrore ci coinvolge tutti. Quando la sete del male si accompagna all’odio e all’ignoranza, si abbatte innanzitutto sui bambini, perché non possono difendersi; e perché nessun genitore immaginava che mandando una figlia al liceo la gettava nelle braccia dell’ignominia, di una sanguinaria brutalità.
Siamo coinvolti, perché per Boko Haram «l’educazione occidentale è un peccato», e le liceali che studiavano, invece di accasarsi, erano contaminate da quest’offesa a Dio. Ma quale Dio?
Il mondo intero ha condannato il sequestro e le torture subite da queste adolescenti. «Rendeteci le nostre ragazze!». Uno slogan gentile, ma ingenuo. Lo si doveva brandire per dar voce alla solidarietà mondiale. Ma davanti alla crudeltà, alla barbarie più abbietta e selvaggia gli slogan rivelano tutta la loro debolezza e inefficacia.
Era ed è necessario aiutare la polizia e l’esercito nigeriano a ritrovare le ragazze rapite, ma servirebbe anche l’intervento di truppe di vari Paesi delle Nazioni Unite per garantire la sicurezza nelle scuole in Nigeria. Non sappiamo cos’abbiano deciso un mese fa i capi di Stato riuniti all’Eliseo con François Hollande; ma intanto il calvario delle sequestrate dura oramai da due lunghi mesi. A che servono le Nazioni Unite e gli Stati democratici, a che servono le scoperte scientifiche, i progressi tecnologici, i più sofisticati mezzi di comunicazione, se non si può far nulla per impedire a una canaglia di impadronirsi di 223 ragazze per stuprarle, bruciarle, martirizzarle e venderle come bestiame che non serve più?
Le denunce, le grida, le manifestazioni sono gesti che Boko Haram non capisce; al limite lo fanno ridere; le nostre proteste lo divertono. Sa che nessuno Stato può sbarrargli la strada, e probabilmente non sarà la Nigeria a farlo. E in ogni modo le ragazze per lui sono uno scudo. Che fare in questo momento, quando possiamo facilmente immaginare le sofferenze delle adolescenti rapite? La nostra compassione non basta, il loro bisogno di consolazione è incommensurabile. Che sta facendo Goodluck Jonathan, il presidente della Nigeria? C’è da chiedersi se sappia (ma sì, lo sa bene) che ogni ora è un inferno, che la sua impronta si incide sui corpi delle ragazze rapite. L’inferno crivella le loro teste, massacra queste sventurate. Anche se a quell’inferno riusciranno a sfuggire, la loro vita è già spezzata, depredata, stritolata.
La lotta contro il terrorismo si fa ogni giorno negli aeroporti, spesso in maniera ridicola; ma non è da lì che passano gli assassini. Hanno i loro circuiti, gli stessi nei quali transita la droga, ove hanno modo di catturare ostaggi occidentali, da scambiare contro ragguardevoli somme di riscatto. Sì, la democrazia è impotente davanti alla mafia, al crimine, alla barbarie.
Eppure sappiamo che nel loro sonno agitato, nei loro sogni bruciati, nella loro ansimante speranza, le 223 liceali guardano verso quest’Occidente, verso la libertà, verso i valori dell’umanesimo e della solidarietà. Che possiamo fare? Sentiamo le loro voci, immaginiamo le loro sofferenze. Chiediamo allora all’Europa, all’America, al mondo umiliato da questi crimini di fare pressioni sui responsabili nigeriani, ma anche sull’Onu, che per una volta potrà prendere un’iniziativa fuori dall’ordinario, facendo tutto ciò che va fatto per riportare le ragazze sequestrate in seno alle loro famiglie. ( Traduzione di Elisabetta Horvat)

La Repubblica 15.06.14