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Bambini vittime dell’orrore di certe famigliole", di Massimo Gramellini

Il presunto assassino di Yara, incastrato dal Dna, scopre di non essere figlio di suo padre, ma di un uomo defunto di cui porta il secondo nome.
Un padre scopre che suo figlio è accusato di omicidio e che non è suo figlio. Una sorella scopre che suo fratello gemello è accusato di omicidio e che neppure lei è figlia di suo padre.
Un fratello scopre che i suoi fratelli gemelli sono fra tella stri e che uno di loro potrebbe es sere un assassino.

Una moglie scopre che suo marito è accusato di omicidio, che suo suocero non è il padre di suo marito né il nonno dei suoi figli e che la storia di Yara che per anni ha visto alla tv le è appena entrata in casa seminando distruzione.

Una mamma aveva scoperto da tempo che suo figlio era ricercato come presunto assassino, ma era rimasta in silenzio per non scoprirlo e non farsi scoprire: quel figlio lo aveva avuto da un uomo che non era suo marito.

Una vedova scopre che suo marito aveva avuto un figlio illegittimo, ora accusato di assassinio.

Non si tratta di uno scioglilingua e neppure di una fiction uscita dalla fantasia di uno sceneggiatore particolarmente lesso, ma della realtà di una tranquilla e rispettabile famiglia della provincia di Bergamo. Spostandoci di qualche decina di chilometri in direzione di Milano ne troviamo un’altra. Sabato sera, una moglie e due bambini sono stati uccisi in modo barbaro dal tranquillo e rispettabile maschio di casa. Ancora non si conosce il movente del presunto omicida di Yara, benché non occorrano troppi sforzi di immaginazione. Ma la carneficina del Milanese sembra scaturire da una psicologia persino più tortuosa.

L’assassino corteggia una collega di lavoro, ne viene respinto e si convince che la ragione del rifiuto sia la sua condizione di uomo impegnato, con moglie e figli a carico. Potrebbe divorziare o anche solo fermarsi un attimo. Ma la vita gli sembra una prigione e le responsabilità le sbarre di una gabbia. Il divorzio costa troppo, in termini economici e sociali. Così mette a letto i bambini, fa l’amore con la moglie, per sfogarsi o per calmarsi, ma non si sfoga e non si calma. Si alza, invece, e va in cucina a prendere un coltello. I bimbi cadono nel sonno, sacrificati come agnellini, La moglie muore da sveglia e fa ancora in tempo a chiedergli «perché». Bella domanda. Ma lui non risponde. Si lava le mani e va al bar a vedere la partita.

L’avvertenza è d’obbligo: non è che tutte le famiglie siano come quelle che la cronaca nera spinge in avanti come sentinelle del nostro smarrimento. Non siamo diventati all’improvviso un popolo di assassini di ragazzine e sgozzatori di parenti prossimi. Chi varca i confini del delitto è sempre un estremista, però si muove in un contesto sociale che non ci è estraneo. La famiglia: luogo di convivenza forzata, culla e tomba di passioni, ma anche fabbrica di interessi e produttrice inesausta di misteri. Come autore di un romanzo a sfondo familiare mi è capitato di ritrovarmi depositario delle confidenze intime di lettrici e lettori che mi hanno fornito un catalogo impressionante di tutte le meraviglie e gli orrori che la cellula della società umana riesce a produrre: complessi, rancori, scoperte tardive, agnizioni, invidie, gelosie e bugie, tantissime bugie. A fin di bene, a fin di male, a fin di niente. Si vive dentro una bolla di non detti, si accumulano tensioni e illusioni e poi si esplode, per fortuna non sempre con gesti da codice penale, ma in modi comunque feroci che fanno vacillare le certezze. Ad esempio che ci si possa fidare almeno delle persone con cui si condividono le mura di casa.

Lascio volentieri a sociologi e psicologi il compito di scandagliare gli abissi della comunità e della psiche umana. Il mio pensiero adesso va solo ai bambini: a quelli uccisi dal padre impazzito e ai figli del presunto assassino di Yara, segnati a vita da qualcosa di troppo grande e orribile per loro. Che i sopravvissuti non perdano mai la fiducia nel prossimo, perché gli angeli spuntano dove meno te lo aspetti e una vita passata a guardarsi le spalle è una condanna immeritata per chiunque, figuriamoci per degli innocenti.

La Stampa 17.06.14