attualità, politica italiana

"Distrazioni di massa", di Elisabetta Gualmini

Non è vero che Grillo ha scelto di entrare nel gioco. Che si è rassegnato alle logiche del compromesso parlamentare, dopo il flop delle europee. Beppe la politica la fa, a suo modo, da moltissimo tempo, dosa e distilla le strategie di breve e di medio periodo con oculatezza, talvolta vince e talvolta perde, ma non si butta mai a caso. A differenza di quello che può apparire, il Beppe istrione e improvvisatore sui palchi e nelle piazze è l’altra faccia del Beppe determinato e razionale. Un leader double-face che non scandalizza nessuno. Quello che dice che la tv è il peggiore dei mali (e cancella poco prima delle politiche l’unica intervista prevista) e poi decide, un anno dopo, che invece è meglio andarci in tv e si accomoda con agio da Bruno Vespa. Quello che dice: o vinciamo le Europee o lascio, ma poi rimane stabilmente in sella. E quello che dopo aver detto no, no e poi no all’odiato Pd poi ci ripensa e manda una richiesta formale di incontro, dai toni quasi affettuosi.

Cambiare le strategie, o meglio adeguare flessibilmente le tattiche alle contingenze della politica, annusando l’aria che tira e cercando di non perdere centralità, è quello che fanno i leader politici. Niente di strano, dunque. Con l’apertura al premier, Grillo raggiunge infatti almeno due obiettivi.

Primo. Mette in imbarazzo il premier costringendolo a scegliere tra lui e Berlusconi. Tra il nuovo e il vecchio, tra i puri e gli impuri. Sinora Renzi aveva potuto spiegare che l’accordo con Berlusconi era dovuto anche all’impossibilità di dialogare con i grillini integralisti e solitari per scelta. Ora il premier dovrà spiegare che al posto di Grillo sceglie «l’inciucio» con Berlusconi. D’altro canto proporre una legge elettorale proporzionale senza premio di maggioranza e con la sola correzione dei collegi di media grandezza significa presentare a Renzi il contrario di quello che vuole. Come portare la carne a un vegetariano che ha chiesto l’insalata. E non è così vero che ci sarebbe governabilità e la possibilità per un partito di governare da solo. Intanto occorre raggiungere il 40% (non così facile da noi con tre partiti molto consistenti) e a differenza della Spagna non è costituzionalmente possibile avere governi di minoranza. Il Democratellum sarebbe una sciagura per Renzi e per il paese. Mentre Grillo non avrebbe niente da perdere. La soglia del 5% gli permette di far fuori tutti i partiti piccoli, compresi quelli della galassia dell’antipolitica, e di conservare un enorme potere di veto.

Secondo obiettivo. La versione morbida del grillismo potrà far dimenticare in fretta la surreale alleanza con la destra radicale di Farage. Nonostante l’approvazione della rete, il cartello in Europa con il partito della destra estrema e xenofoba inglese ha sollevato moltissime critiche, soprattutto tra i parlamentari. Tendendo la mano al Pd, Grillo distrae il suo elettorato dalle faccende europee e dopo essersi avvicinato a un partito di destra ha l’occasione di mostrarsi disponibile verso uno di sinistra. Come a dire discutiamo con tutti, siamo sempre oltre.

E così si invertono le parti rispetto allo streaming del febbraio scorso. Lì era Grillo che non faceva parlare Renzi, uomo delle banche e giovane vecchio della politica italiana, rimproverandogli di essere poco credibile perché diceva una cosa per poi smentirla il giorno dopo. Ora lo vedremo forse ostentare una predisposizione all’ascolto, con il solo obiettivo di smontare l’Italicum ed evitare la logica bipolare e maggioritaria che contribuirebbe ulteriormente al suo sgonfiamento.

Grillo non ha nulla da perdere. Chi invece rischia di più è Matteo Renzi, per la rincorsa a scendere a patti con lui. Tutti lo vogliono. Dalla Lega che vuole ritoccare il titolo V in cambio dell’ok al Senato, a Ncd e Fi che rilanciano sul presidenzialismo, sino a Beppe (appunto) che potrebbe risvegliare gli appetiti per il proporzionale ben presenti in parlamento. E se tutti rilanciano, il rischio di tornare alla casella di partenza è molto alto. C’è da sperare che con la forza del suo 40,8% Renzi riesca ad andare avanti, nonostante i limiti strutturali di questo governo (pur sempre di compromesso e senza maggioranza al Senato). Altrimenti non avrebbe senso proseguire. Di palude sulle riforme istituzionali ne abbiamo già vista molta.

La Stampa 17.06.14

******

Napolitano a Renzi: ampia condivisione. Il premier: l’apertura di Grillo? Va valutata seriamente – In settimana incontro con Berlusconi, di Emilia Patta

«Ora tutti sono favorevoli a fare le riforme ed è positivo: un mese fa sembrava io avessi la peste. Tutti attorno a un tavolo, meglio via mail che si fa prima, e cerchiamo di essere operativi. Questa è la settimana in cui le cose si decidono». La settimana politica di Matteo Renzi si apre all’insegna della riforma costituzionale che supera il bicameralismo perfetto istituendo il Senato delle Autonomie e, sullo sfondo, della legge elettorale. Il premier ne parla nel pomeriggio davanti a una platea attenta come quella degli industriali veneti (si veda pagina 4). E soprattutto ne parla in mattinata con il capo dello Stato Giorgio Napolitano. Nel menù dell’incontro riforme, provvedimenti del governo e prossimo Consiglio europeo. Ma sono le riforme a costituire il piatto forte dopo la svolta del Movimento 5 Stelle, che nel week end ha aperto la porta del dialogo sulla legge elettorale proponendo il cosiddetto Democratellum (un proporzionale con preferenze corretto leggermente in senso maggioritario tramite piccole circoscrizioni). «Napolitano e Renzi hanno fatto il punto sulla definizione dei provvedimenti legislativi discussi dal recente Consiglio dei ministri e hanno poi compiuto un ampio giro d’orizzonte sui temi della riforma costituzionale all’esame del Senato – fanno sapere fonti del Quirinale –. Nell’occasione si è parlato del possibile coinvolgimento del più ampio arco di forze politiche in vista della conclusione dell’iter delle riforme in quel ramo del Parlamento».
Il più ampio coinvolgimento possibile, con l’apporto anche delle forze di opposizione. Napolitano non si stanca di ripeterlo: le regole vanno possibilmente cambiate insieme. E certo la mossa di Beppe Grillo spariglia le carte sul tavolo della trattativa mettendo in difficoltà sia il Pd, che quelle carte non può esimersi dall’esaminare, sia Fi, che rischia di essere scavalcata in Parlamento dopo settimane di indecisione sulla tenuta o meno dell’ormai famoso Patto del Nazareno siglato tra Renzi e Berlusconi nel gennaio scorso. E non c’è dubbio che l’improvviso cambio di strategia di Grillo su riforme e legge elettorale mette innanzitutto sotto pressione proprio il patto del Nazareno. Patto che resta il pilastro sul quale Renzi ha costruito il suo progetto, ci tengono a precisare da Palazzo Chigi. Il premier non cambia schema sulle riforme – assicurano i suoi collaboratori –: la «via maestra» passa sempre dal Nazareno, ma certo Renzi non può che registrare il clima mutato dopo aver spianato la strada delle riforme in commissione Affari costituzionali con la sostituzione del dissidente Corradino Mineo con il capogruppo Luigi Zanda. Il messaggio mandato alle forze politiche dell’opposizione è insomma giunto chiaro: il governo non aspetterà oltre, le riforme possono passare anche a maggioranza. E a differenza di molti dei suoi nel Pd Renzi vuole prendere sul serio l’apertura di Grillo, non la considera un bluff o un espediente per uscire dall’angolo. La data buona per l’incontro con i 5 Stelle potrebbe essere mercoledì della prossima settimana (il format, streaming o altro, è ancora da decidere, l’unica certezza è che non ci sarà Renzi ma probabilmente la ministra Maria Elena Boschi e il vice al partito Lorenzo Guerini). Mentre l’incontro atteso con Berlusconi – il terzo faccia a faccia su riforme e legge elettorale – dovrebbe esserci nelle prossime ore, forse già oggi, anche se ancora non è stato fissato.
Ed è tutta dell’ex Cavaliere, ora, la responsabilità di far vivere o meno il Patto del Nazareno. Perché anche senza l’apporto di Forza Italia il premier è intenzionato ad andare dritto sulla riforma del Senato e del Titolo V, convinto che le eventuali defezioni dei “dissidenti” del Pd sarebbero comunque coperte dai fuoriusciti grillini e da parte di Sel. Nonché dalla Lega: ieri in Veneto Renzi ha discusso del tema con il governatore Luca Zaia, e in Senato i democratici danno per fatto l’accordo con il Carroccio – tramite Roberto Calderoli – sulla base di qualche ritocco in favore delle Regioni sulla composizione del nuovo Senato e sul Titolo V. Intanto la dissidenza dei 14 senatori del Pd autosospesisi dopo la sostituzione di Mineo si avvia a rientrare: rassicurati da Zanda durante un incontro durato ben due ore e mezzo sul fatto che l’articolo 67 della Costituzione che stabilisce la libertà di mandato degli eletti sarà rispettato, dovrebbero annunciare già oggi il ritiro della forma di protesta messa in atto con l’autosospensione. Mineo non sarà comunque reintegrato in commissione, che potrà dunque contare su una maggioranza coesa anche dopo la sostituzione di Mario Mauro per i Popolari per l’Italia. Ma i senatori democratici in dissenso potranno comunque votare secondo coscienza in Aula senza rischiare sanzioni. Il problema dei numeri insomma resta. Anche da qui la necessità di «un’ampia condivisione».

Il Sole 24 Ore 17.06.14