attualità, politica italiana

"La corsa per non essere tagliati fuori", di Federico Geremicca

Un po’ meno sindaci e un po’ più di consiglieri regionali; un po’ meno membri nominati dal Quirinale e un po’ più competenze da esercitare. Per il «nuovo Senato», dunque, l’accordo sarebbe cosa fatta, o giù di lì. E anche l’Italia degli scettici – quella del non si può fare, non ci riusciranno mai – sembra rassegnata alla sconfitta.

Del resto, si era inteso già da qualche giorno che il dado era ormai tratto: lo si era inteso, per la precisione, da quando perfino la Lega e il movimento di Beppe Grillo avevano deciso di saltare sul carro delle riforme. Che poi, in tutta evidenza, è il tradizionale carro del vincitore: che anche in questa circostanza – come per le primarie, per gli 80 euro e per le elezioni europee – porta il nome di Matteo Renzi. Dopo mesi di confronto e discussione, insomma, la strada delle riforme sembra finalmente in discesa. Ed è una svolta rispetto alla quale il voto del 25 maggio ha avuto un effetto assolutamente determinante.

C’è voluto del tempo perché i partiti metabolizzassero le tante sorprese riservate dalla consultazione europea.

I risultati prodotti dall’iperbolico 40,8% incassato dal Pd a trazione Renzi hanno faticato a manifestarsi, ma ora – e non è affatto detto che sia finita – sono sotto gli occhi di tutti: il Pd più «pacificato» di quanto lo fosse anche alla vigilia del voto; Forza Italia che si lecca le ferite e resta aggrappata a un tavolo (quello appunto delle riforme) che è rimasto uno dei pochi ai quali può ancora sedere; la Lega di Salvini pronta ad accomodarsi; la Sel di Nichi Vendola che si scioglie come un gelato al sole; e infine – novità delle novità – Beppe Grillo che chiede di esser presente alla partita e assicura che intende parteciparvi «in modo rapido e responsabile». Si assiste, insomma, ad una sorta di corsa a non restar tagliati fuori.

La svolta, in fondo, è comprensibile: con l’aria che tira – aria manifestatasi inequivocabilmente appunto col voto europeo – il mestiere dei «gufi» e dei «rosiconi» (per dirla alla Renzi) cioè dei «frenatori», si è fatto difficile e soprattutto rischioso. Mettersi in scia del premier, insomma, potrebbe essere – per i suoi avversari e per il Paese stesso – un buon affare o comunque il male minore: ed è questo – con l’eccezione della giovane formazione della coppia Meloni-Crosetto – quello che i più hanno deciso di fare. Per Matteo Renzi l’occasione è unica. E il fatto che tutto ciò avvenga alla vigilia del suo semestre di presidenza europea, accentua ulteriormente la sua forza ed il suo potere contrattuale.

Si tratterà, naturalmente, di non sbagliare alcuna mossa, né sul piano dell’attività di governo (dove molte delle riforme annunciate attendono ancora una traduzione legislativa) né su quello dei rapporti politici. E da questo punto di vista la partita più delicata è senz’altro quella che lo attende proprio di fronte alla più inattesa delle sorprese: la svolta annunciata da Beppe Grillo. Inutile nascondere che l’incontro fissato per mercoledì si candida ad essere forse ininfluente nel merito dei problemi che affronterà (le riforme) vista la grande distanza tra le rispettive posizioni, ma certamente assai rilevante sul piano politico. È evidente, infatti, che qualunque sia la ragione per la quale Grillo ha ritenuto fosse giunto il momento di «aprire» a Renzi (tatticismo politico, tentativo di rallentarne il cammino, ripensamento autentico) la risposta che il premier ed il Pd riterranno di dover dare, non potrà non pesare sui rapporti futuri tra «grillini» e democratici. Ma è una partita che comporta dei rischi anche per Beppe Grillo. Infatti, l’idea che il Movimento abbia subito uno stop alle ultime elezioni in ragione del suo tenersi del tutto fuori dalle diverse partite politiche e parlamentari in corso, non ha controprova ed è molto – per dir così – politologica.

Al contrario, è assai concreta la possibilità che il suo elettorato – o gran parte di esso – possa non apprezzare affatto il «mischiarsi» del Movimento con i partiti politici «tradizionali», i suoi riti, le sue riunioni e i suoi necessari compromessi. Il «popolo di arrabbiati» che ha votato Grillo in segno di protesta proprio contro il sistema dei partiti, potrebbe insomma restar deluso e sconcertato dalla mossa: ecco, anche loro sono come gli altri. È un rischio: ma forse, al punto cui era giunto, un rischio che Grillo non poteva non correre…

da La Stampa