attualità, politica italiana

"C’è un cuoco un po’ miope nella cucina delle riforme", di Michele Ainis

La legge elettorale? A bagnomaria, cucinata a fuoco lento. E il Senato? Al forno, ma attenti alle ustioni. Intanto, mentre le pietanze cuociono, c’è già chi accusa un mal di pancia. Colpa degli ingredienti, anche se nessuno li ha ancora assaggiati. Oppure colpa delle pance. D’altronde non ce n’è una uguale all’altra: per saziarle, servirebbero mille menu per i nostri mille parlamentari.
Le soglie di sbarramento, per esempio: Bersani le trova troppo basse, Berlusconi troppo alte. O le immunità: sì da Alfano, sì da Forza Italia in coro, no da Grillo e Vendola, Pd non pervenuto. L’elezione diretta del Senato: a favore la minoranza della maggioranza (da Chiti a Minzolini), però stavolta la maggioranza rischia d’andare in minoranza. E le preferenze? Bersani le vuole, Berlusconi le disvuole, Renzi forse le rivuole, Grillo preferisce le spreferenze (un voto per promuovere, un voto per bocciare).
Troppi cuochi, verrebbe da obiettare. E troppa carne al fuoco. Ma per ottenere un piatto commestibile, bisogna anzitutto scegliere un’unica ricetta. È questo il nostro problema culinario: pencoliamo dalla nouvelle cuisine (il doppio turno in salsa francese) ai crauti (un Senato che scimmiotta il Bundesrat tedesco). Senza un’idea precisa, senza un progetto consapevole. Eppure in questi casi gli ingredienti sono solo due: rappresentanza e governabilità. Si tratta perciò di miscelarli per cavarne un buon sapore. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi. Specie in Italia, dove manca persino la bilancia. Come d’altronde testimonia la nostra stessa storia.
Durante la Prima Repubblica c’era una legge elettorale superproporzionale. Risultato: il massimo di rappresentatività del Parlamento (aperto a tutti, dai radicali ai neofascisti), il minimo di stabilità (i governi duravano in media 10 mesi). Ma anche il massimo di garanzie costituzionali, nella scelta dei custodi così come delle regole; difatti in 45 anni furono appena 6 le revisioni della Carta, peraltro su aspetti marginali. Dopo di che l’avvento del maggioritario battezza la Seconda Repubblica, e qui i pesi s’invertono. Diventa fin troppo facile emendare la Costituzione (10 interventi in vent’anni, senza contare la maxiriforma del 2005, bocciata poi da un referendum). I presidenti delle Camere perdono il loro abito neutrale, perché la maggioranza se li accaparra entrambi. Fino alla tragedia nazionale andata in scena l’anno scorso, durante i 5 voti nulli per eleggere il capo dello Stato. Perché ormai ci eravamo abituati a scelte rapide, sonore, muscolari. Eppure Scalfaro e Pertini vennero eletti al 16º scrutinio, Saragat al 21º, Leone dopo 23 votazioni.
Morale della favola: urge trovare un equilibrio fra rappresentanza e governabilità. Per esempio: il combinato disposto fra l’Italicum e il nuovo Senato permette al vincitore di mettere il cappello sul Quirinale. Non va bene, ma basta diminuire i deputati. E magari aumentare i collegi, per consentire all’elettore di conoscere il faccione dell’eletto. Abbassare le soglie di sbarramento, perché l’8% è una montagna. Innalzare il 37% con cui scatta la tombola elettorale: siccome un italiano su 2 marina ormai le urne, quella maggioranza è fin troppo presunta, e dunque presuntuosa. Ecco, la presunzione. È il nemico più temibile, perché nessuno può cucinare le riforme in solitudine. Mentre i 5 Stelle aprono al Pd, mentre Berlusconi offre collaborazione, sarebbe un delitto se il governo vedesse solo il proprio ombelico. Ma dopotutto, basta regalare al cuoco un paio d’occhiali.

da Il Corriere della Sera