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"Andate e ritorno della crisi economica", di Mario Pirani

Nelle ultime settimane le cose sembravano aggiustarsi e la crisi dava segni di remissione. Poi, quasi all’improvviso, l’andamento congiunturale si è rovesciato. Il possibile crac di una piccola banca portoghese, l’Espirito Santo, ha diffuso nelle banche e nelle borse il timore di una nuova scossa tellurica. Contemporaneamente la caduta subitanea della produzione in Italia e Francia ha riproposto la sfiducia in una ripresa dell’economia reale. Eppure la paura di una nuova eurocrisi non è per ora esplosa. Seguita invece a stupire per contro il grado di resilienza (e cioè la capacità di far fronte in modo positivo ad eventi traumatici) dell’Unione europea. Lo abbiamo toccato in questi giorni in Italia e in Portogallo. Anche con le elezioni il movimento anti euro è rimasto nell’ambito di un fuoco di paglia e le stesse elezioni europee — malgrado l’astensionismo e la forza dimostrata da alcuni movimenti populisti — non hanno visto nessuno sfondamento significativo della compagine europeista.
Eppure è chiaro che tutti i pericoli seguitano a bruciare sotto la cenere. L’economista Lawrence Ball della Harvard University ha calcolato gli effetti di trascinamento di lungo periodo della crisi partita nel 2008 dagli Stati Uniti: in 23 Paesi Ocse, i Paesi più avanzati, il declino del reddito potenziale dei Paesi, quello che una economia è capace di produrre sfruttando tutti suoi fattori della produzione, è stato dell’8,3% medio, con picchi oltre il 30% per Grecia e Irlanda. La crisi, solo apparentemente temporanea, ha fatto scomparire per sempre dei fattori della produzione potenziale: in particolare giovani e piccole imprese, che hanno abbandonato la scena dell’economia. La somma di tutte queste perdite di lungo periodo è grande, dice Ball, come la creazione annuale di ricchezza tedesca: equivale a dire che questa crisi ha fatto sparire la capacità di creare ricchezza pari a quella di una economia della grandezza della Germania dagli schermi mondiali.
Si chiede Ball: cosa potrà restituire vitalità all’Europa per rigenerare la capacità di crescita di lungo periodo? Come ridare alle imprese la voglia di investire e ai giovani la disponibilità a rientrare nel mercato del lavoro? Non lo sappiamo, dice l’economista americano, ma la migliore scommessa che si sente di fare è quella di dire che se questo potenziale è stato tarpato dall’emorragia di una grave recessione ciclica, è solo con un’espansione ciclica altrettanto forte, che stimoli la domanda interna, che si possono ristabilire condizioni di entusiasmo strutturale all’interno dell’economia.
E qui arriviamo all’Europa e alla sua strategia attuale. Che al contrario della ricetta di Ball richiede ai Paesi in difficoltà come il nostro di raggiungere obiettivi di bilancio in pareggio così ambiziosi e bruschi da tarpare le ali a qualsiasi ripresa, sia congiunturale che di lungo periodo. In questo modo l’emorragia può solo continuare ad allargarsi, mettendo a rischio la tenuta dell’Unione. I dati sull’economia italiana del 2014 sono chiari al riguardo: partiti con una speranza del Governo Letta, confermata dal Governo Renzi, di una “mini-crescita” dello 0,8%, stima immediatamente depressa dal parere della Commissione europea che l’ha dichiarata impossibile e che ha stimato a sua volta uno 0,6%, leggiamo stime di Confindustria pari allo 0,2%, che flirtano pericolosamente con il terribile rischio di un terzo anno consecutivo di recessione. Se l’Europa ci chiede di aggiungerci sopra a questa delicatissima situazione, per il 2015, una manovra aggiuntiva di 20-25 miliardi sarebbe gioco forza dichiarare forfait. La battaglia del Semestre europeo sta tutta qui: come impedire che una austerità ottusa di breve periodo — che ha dimostrato la sua incapacità di garantire stabilità dei conti pubblici e crescita economica — non rovini per sempre un progetto di lungo periodo come quello dell’Unione dell’euro. Una battaglia non per l’Italia ma per l’Europa, come ha detto al Parlamento europeo il nostro Presidente del Consiglio.
È tuttavia evidente come Renzi non possa semplicemente pretendere meno austerità e vedersi accontentato. L’annuncio di una spending review che ancora manca all’appello per tagliare gli sprechi è il “chip” negoziale che ha in mano il premier per portare a casa il rinvio della manovra fiscale del prossimo autunno richiesta per ora dall’Europa. Se poi Renzi sarà appoggiato in questa sua battaglia da iniziative popolari valide come quella del referendum (con tagli della spesa e dei servizi pubblici) — promosso dal Comitato presieduto dall’economista Gustavo Piga — contro le parti più austere della legge che ha importato in Italia il Fiscal Compact, la 243/2012, tanto meglio. Una cosa è certa: non c’è tempo, dobbiamo fare rapidamente,
se vogliamo difendere l’Europa dell’euro.

da La repubblica