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"Noi minoranza crediamo nella pace ma il nostro Paese non ci ascolta", di Assaf Gavron

Siamo tra l’incudine e il martello. Anche da noi si vive la tragedia ma non viene riconosciuta

LA SETTIMANA scorsa sono stato invitato dai residenti di Tekoa, un insediamento in Cisgiordania, a parlare del mio romanzo Hagiva ( La Collina, ndr), la storia immaginaria di un insediamento ebraico non diverso dal loro. Alcuni hanno espresso critiche su ciò che hanno visto come una rappresentazione stereotipata dei “coloni di destra” da parte di un “autore della sinistra di Tel Aviv”, ma la maggior parte ha trovato il romanzo onesto. L’ospite mi ha chiesto la mia opinione sugli insediamenti. «Credo che siano un problema », ho detto. «Aspetta ancora qualche razzo su Tel Aviv», ha detto qualcuno tra il pubblico, «e tutti saranno convinti ». «Il problema è proprio questo», ho risposto. «Nessuno si convince mai. Qualunque cosa accada, ognuno crede ancora di più in ciò che già pensava. Voi dite: “Non possiamo fidarci dei palestinesi, vogliono ucciderci, non possiamo lasciare che si gestiscano da soli perché non fanno altro che accumulare armi e preparare degli attacchi”. E noi diciamo: “Siamo noi i responsabili, perché siamo la parte più forte, quella che occupa. Continuiamo a togliere ogni speranza ai palestinesi e non gli diamo altra scelta se non quella di usare la violenza. Dobbiamo raggiungere un accordo perché la guerra non è mai la soluzione”». Non so che cosa sia più deprimente, se la situazione attuale con questo orribile spettacolo di morte e distruzione e di morti che si accumulano, o il fatto che non sembra esserci un modo per spezzare questo cerchio senza fine. Se osservo la mia società, vedo solo una ripetizione senza fine delle stesse opinioni, un auto- convincimento infinito senza che si intraveda una svolta.
Ero un soldato a Gaza 25 anni fa, nella prima Intifada. Ci trovavamo davanti ad adolescenti arrabbiati che ci lanciavano sassi. Rispondevamo con gas lacrimogeni e sparando in aria proiettili di gomma. Ora quei giorni sembrano bei vecchi tempi innocenti. Le pietre sono state sostituite da pistole e da bombe suicide, e ora da razzi. Per me è facile da spiegare: Israele non si è sforzata di raggiungere un accordo equo e ha trovato una resistenza sempre più intensa.
La cosa ancor più deprimente della situazione attuale è la natura che stavolta ha assunto la discussione interna nella società israeliana. È la più intollerante e intransigente che abbia mai visto. Ho notato questa tendenza già nel 2008, ma diventa sempre più forte: sembra che ci sia una sola voce, orchestrata dal governo e dall’esercito, e questa voce riecheggia in tutti gli angoli del Paese. I tentativi di rappresentare una posizione diversa da quella del consenso generale sono ridicolizzati e trattati con sufficienza nei migliori dei casi, altre volte sono denigrati e attaccati. Chi non «sostiene le nostre truppe» è visto come un traditore.
Forse ciò che rende tutto molto più aggressivo è la prevalenza di Facebook. Qui non ci sono più limiti: qualsiasi sentimento di sinistra che non sia allineato con il presunto consenso (per esempio, chiedere un accordo diplomatico o esprimere compassione per le vittime civili a Gaza), viene accolto da una raffica di risposte razziste e piene di odio. Tutto ciò sta avendo conseguenze. Conosco gente che ha paura di andare alle manifestazioni. I politici all’opposizione si allineano dietro al governo e raramente contraddicono le sue iniziative. La sinistra sta diventando più debole, più piccola e inefficace. Non mi sono ancora arreso, però, perché c’è ancora un altro gradino nell’escalation della depressione ed è qui che voi entrate in gioco. Perché quando ci rivolgiamo al mondo — noi, questa minoranza di sinistra che crede nei diritti umani, nel mutuo accordo, nella pace — non otteniamo appoggio. Siamo messi insieme alla maggioranza; facciamo tutti parte del male. Siamo boicottati. Stiamo cercando di presentare una voce sana, diversa, ma la nostra voce non è ascoltata. Vediamo che la simpatia è rivolta a una sola parte e abbiamo poca simpatia per coloro che sono ciechi per le sofferenze degli altri. Sono inorridito dal migliaio e oltre di morti palestinesi e dai tanti israeliani che non sono disposti a riflettere su questo. Ma sono anche profondamente rattristato dalle decine di bambini israeliani che perdono la vita e da tutti quelli nel mondo che non riconoscono la tragedia che si vive anche dalla nostra parte. Siamo tra l’incudine e il martello.
La settimana prossima partirò con la mia famiglia per andare a vivere e insegnare negli Stati Uniti, per un anno, o forse due. Non è una fuga, era in programma da molto tempo. Tuttavia, mia moglie ed io programmiamo spesso queste pause. Abbiamo bisogno di respirare aria fresca per un po’ ogni tot anni, ma poi torniamo sempre, perché questa è casa nostra, la nostra lingua, la nostra gente. Spero di tornare dopo questo viaggio, in un posto dove sia più tollerabile vivere, con meno minacce da fuori e da dentro. Ma non ci conto.
(Traduzione di Luis E. Moriones)

Repubblica 2.8.14

“Gli occhi di Farah sulla guerra”, di Alix Van Buren

FARAH Baker ha 16 anni, due occhi turchesi, la pelle d’alabastro e ben 125mila iscritti al suo profilo Twitter sul quale campeggia un “selfie” di lei a occhi sgranati, a Gaza. Col nome di @Farah-Gazan è la nuova “star” dei social media. Un seguito di adolescenti, giornalisti, musicisti, le scrive dal mondo in segno di solidarietà. Lei digita pensieri semplici di una bambina che segue la guerra appostata alla finestra con lo smartphone: «Chissà cosa sono quelle strane luci», fa vedere delle curiose palle luminose che paiono lune appese al cielo. Viene da sporgersi per capire se siano razzi, illuminanti, traccianti, e attivando il volume se ne ascolta anche il suono. «Sentite una delle bombe, adesso», twitta; a dire la verità il rimbombo arriva ovattato online; però, quando lei registra un’esplosione ogni minuto la notte del martellamento di Gaza, l’inquadratura fissa sul palazzo dirimpetto, un sussulto nell’attimo della deflagrazione, il suo “candido obiettivo” — tale almeno all’apparenza — fa un certo effetto. Quando poi lei racchiude in 140 caratteri il terrore d’adolescente: «Colpiscono la mia zona. Non riesco a smettere di piangere. Stanotte potrei morire», un musicista come Gilles Zimmermann, viola da gamba, dalla Francia si dice «commosso» e le regala il download gratuito delle sue composizioni.
Tuttavia il tweet forse più efficace è una riflessione derivata da un semplice calcolo matematico: «A 16 anni ho conosciuto già 3 guerre»: 2008-2009, 2012, infine oggi. Un’indicibile tragedia in poche battute.
Qualcuno si arrischia a definire Farah “la nuova Anna Frank”, fissa alla finestra ad annotare la guerra. Qualcun altro dubita dell’innocenza. Il fatto che i suoi aggiornamenti non segnalino la posizione insinua il sospetto d’un falso. Questo finché i network televisivi, da Cnn alla Bbc a Nbc, l’hanno scovata e intervistata. Altri infine la tacciano di protagonismo: «grida lo spavento per aumentare i follower». Ed è vero che a ogni nuovo allarme, quelli crescono. Resta che lei, da ieri, non si fa sentire. Alle 16: 00 ha scritto: «Minacciano di bombardare un edificio davanti all’ospedale Shifa (vicino al suo palazzo, ndr.), stiamo evacuando da casa». Il tempo di scrivere questo articolo, e ai suoi follower se ne sono aggiunti altri mille.

Repubblica 2.8.14

“Quella Striscia che l’Egitto trattava come corpo estraneo. Creata 64 anni fa, era abitata da profughi fuggiti dopo la guerra del ’48. Ma il governo del Cairo non concesse mai la cittadinanza ai residenti”, di Abraham B. Yehoshua

La creazione di una striscia costiera intorno alla città di Gaza, lunga 40 chilometri e larga una decina per un’area complessiva di 365 chilometri quadrati, risale alla fine della guerra del 1948, 64 anni fa. La guerra scoppiò subito dopo l’approvazione della risoluzione dell’Onu che sanciva la creazione di due stati nell’allora Palestina, uno ebraico e l’altro arabo, di dimensioni uguali.
I palestinesi e gli stati arabi non accettarono questa risoluzione e si preparano a distruggere il neonato stato ebraico. Al termine del mandato britannico, il 15 maggio 1948, gli eserciti di tre paesi arabi invasero la Palestina: quello giordano a Est, il siriano a Nord e l’egiziano a Sud, per cercare di annientare lo stato di Israele. Dopo aspre battaglie gli israeliani riuscirono a respingere l’attacco giordano (che aveva messo sotto assedio Gerusalemme), a cacciare quello siriano dalla Galilea e a fermare quello egiziano a soli 78 chilometri da Tel Aviv. Al termine degli scontri, nelle mani dei palestinesi rimase solo metà del territorio loro assegnato dalla risoluzione Onu. In quel territorio non venne fondato un nuovo stato palestinese ma rimase sotto il controllo di due paesi: la Giordania in Cisgiordania, e l’Egitto nella Striscia di Gaza. I giordani, che consideravano la Cisgiordania una possibile parte del loro regno, conferirono la cittadinanza ai profughi palestinesi stabilitisi a est del Giordano e protessero i luoghi santi di Gerusalemme est. Poiché si sentivano vicini ai palestinesi da un punto di vista etnico mantennero con loro rapporti relativamente buoni e ne garantirono il libero transito verso altri paesi arabi.
Ma la situazione era diversa nella Striscia di Gaza. Gli egiziani trattarono con durezza i palestinesi della Striscia, isolati dai loro fratelli e dal loro popolo in Cisgiordania. Li consideravano un inutile peso, un grattacapo piombato loro addosso a causa della sconfitta subita contro Israele, del quale continuavano a non riconoscere la legittimità e con il quale avevano concordato una tregua incerta. I numerosi profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dai loro villaggi durante la guerra del 1948 e affollatisi nella Striscia, venivano considerati dagli egiziani un popolo problematico e distaccato dalle sue radici. Va inoltre detto che la Striscia di Gaza è lontana dalle città egiziane, dalla quali è separata dal Canale di Suez e dal deserto del Sinai. Gli egiziani, quindi, non concessero mai la cittadinanza ai residenti di Gaza e, in pratica, rimasero in attesa del momento in cui si sarebbero potuti sbarazzare di questa regione che ricordava loro la sconfitta militare subita nella guerra del 1948.
La crudeltà degli egiziani contro la popolazione di Gaza risvegliò l’ostilità di quest’ultima ed echi di questo sentimento sono tuttora visibili nella guerra in corso. Nonostante infatti le melliflue parole di solidarietà, tra egiziani e palestinesi di Gaza c’è una costante tensione che oggi si manifesta con tutta la sua forza. I primi accusano i secondi di intromettersi negli affari interni del loro paese e partecipano quindi attivamente al blocco brutale a loro imposto negli ultimi anni.
La Striscia di Gaza rimase sotto il controllo dell’Egitto fino al giugno del 1967, a eccezione di un brevissimo periodo – qualche mese – dopo la campagna del Sinai, nell’ottobre 1956. Allora Israele sconfisse l’esercito egiziano e conquistò l’intero deserto del Sinai e, nell’impeto dell’avanzata, senza difficoltà e in un solo giorno, anche la Striscia di Gaza. Al termine di quella breve guerra, alla quale presero parte anche Francia e Gran Bretagna, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica imposero, congiuntamente ed esplicitamente, a Israele di arretrare entro le linee dell’armistizio del 1948. Lo stato ebraico si ritirò dal deserto del Sinai nel giro di pochi mesi. Per un brevissimo periodo esitò se ritirarsi dalla Striscia di Gaza, che in ogni caso fa parte della Terra d’Israele/Palestina, ma, obbedendo all’ordine delle due potenze e incerto su come gestire quella regione affollata di campi profughi, retrocesse e Gaza fu riconsegnata all’Egitto che non ebbe altra scelta che quella di riprenderla sotto il suo patrocinio.
Nel 1967 scoppiò la Guerra dei Sei Giorni a causa dell’incontrollata e irresponsabile provocazione del dittatore egiziano Abdul Nasser. Per sei giorni Israele combatté con successo su tre fronti: a nord, contro i siriani, dove conquistò le alture del Golan, a est, contro i giordani, dove conquistò la Cisgiordania, e a sud, contro gli egiziani, dove occupò tutto il deserto del Sinai. E, ancora una volta, nell’impeto dell’avanzata, riconquistò in un solo giorno la Striscia di Gaza.
L’incredibile facilità con cui venne conquistata la piccola Striscia nel 1956 e nel 1967, malgrado la presenza di carri armati e dell’artiglieria egiziana, si contrappone all’attuale paura e difficoltà di penetrarvi dell’esercito israeliano (diventato molto più forte negli anni trascorsi da allora) e indica principalmente l’immenso cambiamento avvenuto nella determinazione, nella forza, nell’ingegno, nell’audacia e nella disponibilità al sacrificio dei discendenti dei profughi rispetto all’atteggiamento di sottomissione dei loro padri in passato.
Non è un caso che nel trattato di pace firmato con Israele nel 1979 gli egiziani rifiutarono di riprendersi la Striscia. Accettarono con gioia il deserto del Sinai ma lasciarono questa problematica regione nelle mani di Israele. Gaza è parte della Palestina, così stabilì chiaramente il presidente egiziano Anwar Sadat, e da ora in poi sarà un problema di voi israeliani come gestirla e come ricongiungere i suoi residenti ai loro fratelli in Cisgiordania per creare un’unica entità. Dopo tutto, nell’accordo di pace, vi siete impegnati a risolvere il problema palestinese, pur non avendo spiegato come.

La Stampa 2.8.14

“Un’altra generazione di giovani in guerra: la nostra colpa di padri”, di Anshel Pfeffer

Martedì sono andato verso sud, in compagnia di un collega giornalista, con la scusa di un reportage, ma per entrambi non si trattava di un incarico come un altro: volevamo essere vicini ai nostri figli.
Senza dire una parola, sapevamo di attraversare il peggior periodo della nostra vita, i giorni della preoccupazione e della vergogna. Se sei cresciuto in Israele, porti sempre davanti agli occhi l’immagine del primo soldato caduto. Qualcuno che conosci, un parente, un vecchio amico. Quando avevo 10 anni, quel destino toccò a un ragazzo della mia scuola ucciso in Libano. Commemorato nelle esequie, nelle foto appese ai muri della scuola, il primo che riuscivo a immaginare con chiarezza: abitava nella mia stessa strada, fantasticava nelle stesse aule e giocava a basketball come me.
Man mano che diventi grande queste figure si moltiplicano, ed ecco che cominci a salire sul monte Herzl per partecipare ai funerali di ragazzi che conoscevi bene. Di colpo ti ritrovi nella seconda fase della vita di un israeliano, quando tocca a te. Per i successivi vent’anni, i tuoi amici, colleghi e conoscenti vengono spediti su tutti i fronti. Il fardello della guerra ricade sulle spalle della tua generazione, poi all’improvviso compi 40 anni e ti arriva la lettera di ringraziamento per gli anni di servizio. Cominci a pensare se non sia il caso di spostare lo zaino zeppo di uniformi, cinture, per far spazio nell’armadio, ma non lo fai. Potrebbe servire a qualcun altro.
Nulla ti prepara a quel momento, quando la guerra successiva si profila all’orizzonte, e tu sei padre. In ebraico moderno la parola horim ha un significato speciale quando si riferisce ai genitori dei soldati, che si intensifica quando si è genitori di soldati feriti per salire in un crescendo emotivo e approdare a horim shakulim — i genitori affranti dei soldati caduti. E non parlo soltanto del terrore indicibile di quel colpo alla porta e la vista degli ufficiali sulla soglia di casa che ti presentano la chiamata alla leva, no, è la consapevolezza di una profonda e tremenda responsabilità: andare in guerra e uccidere in tuo nome. Per quanto ti senta invadere da sgomento, orgoglio o senso di protezione, sai che hai fallito nel tuo compito di genitore. Anche tu fai parte dell’ennesima generazione di israeliani che non è riuscita a consegnare a quella successiva un Paese in pace con i vicini.
Quando mi sono arruolato, nutrivo ancora idee romantiche sul mio ruolo nel gigantesco rovesciamento della storia ebraica, che dopo duemila anni di morte e persecuzione era approdata alla generazione redenta, capace di combattere per la propria sopravvivenza anziché lasciarsi sterminare in qualche pogrom in Bielorussia. Toccò a mio nonno, scampato all’Olocausto e mai trasferitosi in Israele, a rovinare le mie fantasie quando, alla prima visita, fece un passo indietro vedendomi apparire in uniforme. Mi ci vollero anni per capire che la sua era stata una reazione «normale», che un nonno normale non si esalta alla vista del nipote con le armi in pugno. Anche a me ci sono voluti anni, come giornalista, come padre e riservista, per comprendere fino a che punto la vista di un soldato possa riempire la stragrande maggioranza di ebrei israeliani di fiducioso orgoglio, mentre in tanti altri scatena sentimenti opposti. Oggi, guardando i nostri figli, ci aggrappiamo a quell’orgoglio e cerchiamo di nascondere la paura, per mettere a tacere i sensi di colpa.
Israele ha vinto questa guerra contro Hamas. L’ha vinta ancor prima che l’operazione «Margine protettivo» avesse inizio, perché per quanto Hamas inciti i suoi alla distruzione dello Stato di Israele, è chiaro che non sarà mai in grado di portarla a compimento. Anzi, sono state le prime due generazioni di israeliani a riportare la vittoria definitiva, nel 1967 e nel 1973, dimostrando che i nostri vicini non avrebbero mai potuto farci sloggiare.
Non c’entra la politica, non si tratta di decidere se il miglior modo per tutelare la sicurezza di Israele sia quella di fare concessioni ai palestinesi, o di colpirli così duramente che non si azzarderanno mai più a sparare razzi o a scatenare una nuova Intifada. Si tratta di riconoscere un’amara sconfitta, abbiamo tradito i nostri figli. Possiamo gettare la colpa addosso ai palestinesi, agli arabi e a tutta la comunità internazionale finché vogliamo, resta il fatto che era nostra responsabilità evitare che andassero ad ammazzare e a farsi ammazzare. E questa colpa è solo nostra.
*editorialista del quotidiano israeliano «Haaretz»
(traduzione di Rita Baldassarre)

Corriere 2.8.14