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"Il buco nero dell'aggiornamento", di Giovanni Scancarello – Italia Oggi 19.08.14

I docenti italiani devono tornare a formarsi. È l’impegno assunto dal governo Renzi sul fronte delle riforme per la scuola. Del resto che i docenti debbano continuamente fare formazione ce lo dice l’Ocse, ma anche la logica. Ma è proprio questo il punto. Non si capisce quale sia stata finora la strategia sulla formazione dei docenti al punto che l’Ocse rileva un buco.
La storia dell’aggiornamento dei docenti italiani, o come la chiama l’Ocse «dello sviluppo professionale», a cavallo della riforma dell’autonomia scolastica, lascia infatti perplessi.
Oggi l’Ocse dice che, oltre al basso livello di coinvolgimento dei docenti in attività formative, i nostri insegnanti chiedono di essere formati su Bes e Tic. Tralasciando il riferimento ai bisogni educativi speciali, nonostante l’Italia sia stata tra i primi Paesi al mondo, quarant’anni fa, a integrare gli alunni diversamente abili nelle classi normali, soffermandoci per un momento sul bisogno formativo nelle Tic, non può sfuggire il fatto che se ne torni a parlare in un Paese in cui si è investito di più negli ultimi anni. Pensiamo solo che tra il 2004 e 2006 furono stanziati 75 mln di euro ricavati dalla vendita delle licenze Umts, per finanziare il più importante piano di formazione dei docenti nelle tic. Fortic così si chiamava il progetto che interessò 196mila docenti, quasi un quarto del totale dell’epoca, a tre livelli di competenza nell’uso delle tic. Si parlò allora di utilizzatori base, ma anche di superdocenti e supertecnici.
Più di 4mila furono i centri di formazione coinvolti, 10mila i tutor impegnati. Un’operazione inimmaginale di questi tempi, ma che fa pensare quando sentiamo dall’Ocse che i nostri docenti ancora oggi necessitano di formazione sulle tic.
Il fatto fu che senza una prospettiva di carriera la maggioranza dei docenti declinò l’invito e lasciò l’onere ai soliti pionieri di turno. All’epoca, va ricordato, già non c’era più l’obbligo di formazione che dal 1995 era stato radiato con l’introduzione del primo contratto di diritto privato della scuola. Ma anche quando la formazione costringeva i docenti a formarsi per avanzare nella carriera retributiva, le cose non andarono affatto meglio.
Prima del ’95 se si voleva salire il gradone bisognava aver frequentato almeno 100 ore di formazione in sei anni. Si scatenò la corsa individualistica ai corsi e corsetti di ogni tipo, che tradì di fattò l’obiettivo originario di innalzare il livello di competenza dei docenti. Insegnanti che diventarono esperti di scacchi, origami, fumetto ma c’è stato anche chi frequentò corsi di yoga, cinema, danze popolari.
Si parlò di corsifici che si pensò di risolvere abolendo l’obbligo di formazione dal contratto. E fu che accanto alla fuga dalla formazione oggi rilevata dall’Ocse, abbiamo anche assistito al puntificio tra i precari, disposti a sborsare cifre anche ingenti per iscriversi al corso di turno, spesso on line, che desse la garanzia di maturare quel punto in più di titoli che gli avrebbe consentito di scavalcare il collega in graduatoria permanente. Fu guerra tra poveri. Quanto basta appunto per esprimere qualche perplessità sulla logica perseguita nello sviluppo della carriera dei nostri docenti e preoccupazione per il futuro. Recentemente con la legge 128/2013, si rievoca l’obbligo formativo e si stanziano per questo 10mln di euro. Basterà?
Stavolta però è l’Ocse che ci richiama all’ordine e all’impegno di «rimuovere le barriere e creare gli incentivi per incoraggiare la partecipazione degli insegnanti nella formazione, ad esempio collegandola alla progressione di carriera. Gli investimenti dovrebbero essere focalizzati sui programmi che riescano a combinare teoria e pratica ma anche ad incentivare le pratiche di formazione tra pari