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Perché la cultura non sia un luogo comune – Manuela Ghizzoni 22.09.14

Nei dibattiti sulla “cultura”, c’è sempre il rischio di trovarsi inevitabilmente ad alimentare due opinioni, che scivolano ormai in luoghi comuni.

La prima riguarda la cultura come patrimonio che ha valore in sé in quanto somma di saperi, testimone di identità e strumento di conoscenza. Queste connaturate virtù la rendono esclusivo oggetto di finanziamento pubblico e non contaminabile dalle regole del mercato.

La seconda, più mondana, è ormai sintetizzabile in una affermazione attribuita ad un famoso ministro dell’Economia: “Con la cultura non si mangia”; si tratta, pertanto, di intrattenimento, mediamente inutile, soprattutto nei periodi di crisi.

I dati sono incontrovertibili: secondo l’Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l’Occupazione, “in Germania le 237mila PMI culturali e creative hanno fatto crescere il Pil, al tempo della crisi, di quasi il 3% e l’occupazione di quasi il 2%. Al livello comunitario, il fatturato di settore e, in particolare, dei prodotti culturali legati all’ICT… ha superato i 600 miliardi di euro che, con margini superiori al 2,5 %, sono arrivati a contribuire più di quanto non abbiano fatto il settore immobiliare, alimentare, tessile o chimico”. Per l’Unesco, invece, “In dieci anni il commercio mondiale dei beni e dei servizi culturali è raddoppiato, superando i 620 miliardi di dollari”.

Del resto, a fronte delle innegabili intrinseche virtù della cultura, lo Stato e le altre istituzioni pubbliche del nostro Paese non investono quanto dovrebbero, e non penso alle sole risorse finanziarie, per le quali siamo – come al solito – fanalino di coda nelle classifiche internazionali. Penso all’assenza di un investimento progettuale, soprattutto all’assenza di un sistema che consenta ai tanti, tantissimi soggetti presenti in un territorio (istituzioni di cultura, operatori culturali, artisti, imprese profit e non, organizzazioni sociali e istituti finanziari) di fare massa critica, di uscire dall’autoreferenzialità, di cooperare nell’offerta e nella produzione culturale. Di essere, insieme, presidi di socialità e civiltà.

La cultura – prodotto umano per antonomasia – si ciba di idee, di talento, di curiosità e di tolleranza. E’ legata all’atto rivoluzionario e individuale della creatività. Ma affinché essa diventi motore di innovazione, di integrazione e persino di giustizia sociale deve intervenire la politica, la buona politica. L’estro personale, la custodia di un bene culturale, la preservazione di un paesaggio o il tramandare una memoria non possono restare atti isolati, pena il fallimento del senso ultimo della cultura, cioè il progresso: qui entra in gioco la capacità di chi ha responsabilità di governo per rendere possibile, vivo e fecondo il connubio tra intrattenimento e formazione, conservazione e reddito, identità e inclusione, economia e civiltà. Una “missione impossibile”? Facciamo in modo, tutti insieme, che non lo sia.