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"Un modo per sprecare i finanziamenti pubblici alla cultura", di Gian Arturo Ferrari – Corriere della Sera 28.10.14

bronzi di riace
Mi trovavo nei giorni scorsi in Calabria e ne ho approfittato per andare a rivedere i bronzi di Riace, non tanto per le polemiche su Expo, quanto per la gioia interiore che sempre mi dà la contemplazione dei capolavori dell’arte greca.
I bronzi si trovano presso il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria, ospitato in un edificio piacentiniano che è stato di recente sottoposto a un’energica ristrutturazione. Sono aperte per ora quattro sale. In una è esposto un arazzo restaurato del Museo diocesano di Gerace e che con l’archeologia non c’entra nulla. In un’altra si trovano invece pezzi di grande qualità provenienti dalla Locride, ciascuno illustrato da una lunga didascalia appesa al muro. Le didascalie sono un bell’esempio di quello specialismo altezzoso e arrogante che una parte della cultura italiana, specie quella accademica, usa come arma di difesa e di offesa. Ricorre l’espressione «tecnica acrolitica», senza ulteriori delucidazioni. Io sono un classicista di formazione ed ero in compagnia di un professore universitario, di uno scrittore e di un bibliotecario. Nessuno di noi sapeva che cosa fosse la tecnica acrolitica. A chi è indirizzata, di grazia, quella didascalia?
In una terza sala, più piccola, è esposto invece un solo pezzo, meraviglioso. Una figura maschile troncata sotto le ginocchia, priva del braccio sinistro e con il destro che arriva al gomito. A occhio e croce fine del VI – inizio del V secolo. Dico a occhio e croce perché qui, esauriti evidentemente dalle fatiche della tecnica acrolitica, gli estensori delle didascalie si sono concessi un meritato riposo.
Nella quarta sala ci sono i bronzi, ma per accedervi bisogna stare per due o tre minuti in una stanza di decontaminazione. Una volta decontaminati si entra nella sala sulle cui pareti e dietro ai bronzi — in modo che guardandoli li si vede su questo sfondo — stanno appesi due grandi e coloratissimi cartelloni che illustrano rispettivamente il terzo restauro e le basi antisismiche su cui i bronzi poggiano. Non una parola viene detta su che cosa i bronzi siano, da dove vengano, quando siano stati eseguiti e via dicendo. Più in generale, il restauro del museo è stato concepito su idee di svuotamento, grandi spazi e assoluto biancore. Peccato che per un’altezza di mezzo metro da terra tutto l’immacolato candore sia cosparso di nere pedate, sfregi, sbaffi, segnacci, un’aria di sporcizia che quello sfondo rigoroso contribuisce a mettere in risalto. Chi e come li ha fatti? Non si sa. Chi e come non li ha puliti, cancellati, rimbiancati? Non si sa. Quel che si sa è che il rifacimento del museo è costato finora 36 milioni di euro e ne costerà, a lavori finiti, 50. Soldi dei contribuenti, naturalmente.
Mi trovavo in Calabria perché partecipavo al Tropeafestival Leggere&Scrivere che, nonostante il nome, si è svolto a Vibo Valentia. Vibo è (era?) la più piccola provincia italiana, circa 160 mila abitanti, ma in compenso quella che conta proporzionalmente la più alta concentrazione di criminalità organizzata. Le cosche e ‘ndrine accertate, emerse, di ‘ndrangheta sono 26, secondo la valutazione del procuratore della Repubblica Mario Spagnuolo, un illuminista meridionale pugnace e senza illusioni, e del prefetto Giovanni Bruno, un messinese giovane per la sua carica (53 anni) capace di conservare il buonumore. La città di Vibo, che di abitanti ne conta poco più di 30 mila, si adorna anche — tutt’altro paio di maniche, certo — di 13 logge massoniche, tra censite e coperte.
Alla domanda di quanto la vita economica sia infiltrata dalla criminalità, il prefetto e il procuratore, concordi, asseriscono che il condizionamento è assolutamente endemico. L’economia legale ne viene quasi soffocata. Qui negli anni 70 trascorsero la loro felice latitanza i maggiori terroristi neri e alcuni anche rossi. Insomma, un bel posticino. Proprio qui, un gruppo di persone generose fa venire da diversi anni e per sei giorni consecutivi autori di libri e uomini (in realtà molte donne) di cultura che s’intrattengono, come in tutti i festival ma qui più familiarmente, con ragazzi, bambini, anziani, insegnanti, persone a vario titolo interessate. Il festival, con la sua capacità di attrazione, li mette insieme, li fa incontrare, connette i fili e comincia a tessere, con pazienza e senza miracoli, la tela della convivenza civile, di un mondo migliore. Tutto questo costa 200 mila euro l’anno, fondi europei conferiti dalla Regione.
Morale o, meglio, alcune morali. Primo. Guardare con i propri occhi, andare a vedere, quel che Erodoto chiamava «autopsia» che proprio questo vuol dire. Secondo. Fiumi d’inchiostro e tonnellate di carta si sono spesi sui bronzi a Milano. È questione di opinioni. I fatti sono un’altra cosa, sono quelli che abbiamo descritto. E dei fatti sarebbe bene che primariamente ci occupassimo. Terzo. Non è vero che lo Stato non spende in cultura. Spende, poco o tanto che sia. Soprattutto sceglie dove e quanto spendere. E di questo deve rendere conto ai cittadini. «Non ci sono soldi» è una scusa, nasconde il fatto che lì i soldi si danno e là no. Non si danno a chi la cultura la diffonde con coraggio e impegno, si danno per musei faraonici. E sporchi.

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