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"Il gap che dobbiamo colmare prima che sia troppo tardi", di Riccardo Luna – La Repubblica 11.11.14

Non si può dire che non ci avesse avvertito. Nel 1995 il futurologo Jeremy Rifkin ci scrisse sopra un libro: La fine del lavoro si intitolava, e non poteva essere più chiaro di così. Sono passati vent’anni e oggi, guardando i dati sulla disoccupazione crescente quasi ovunque dalle nostre parti, possiamo dirlo: sul lavoro Rifkin aveva ragione. L’automazione, indotta dalle nuove tecnologie, ha avuto e sta avendo davvero un effetto devastante sugli operai, gli impiegati, i commercianti e i liberi professionisti. Basta guardare alla cronaca: la catena di fast food McDonald’s ha appena annunciato di voler introdurre dei tablet per ricevere le ordinazioni riducendo i camerieri; il colosso dell’e-commerce Amazon sta assumendo 10 mila robot nei propri magazzini per sbrigare lo smistamento dei pacchi; mentre da tempo sappiamo che gli algoritmi introdotti da Google e da altri per guidare le auto funzionano alla perfezione ed è solo per una questione di assicurazione (chi paga in caso di incidente?) che non abbiamo ancora auto senza autisti. Torna in mente un altro saggio profetico, questa volta del 2000, scritto da uno dei guru di Silicon Valley, Bill Joy: «Il futuro ha ancora bisogno di noi?».
Anche stavolta la risposta è nella cronaca, in quello che accade ogni giorno, magari senza fare notizia. Qualche giorno fa a Dublino si è chiuso il Web Summit, uno dei più grandi eventi del mondo dedicati agli startupper, una definizione dietro la quale dovete immaginare dei giovani che hanno visto un problema e realizzato una soluzione con il digitale, e che quindi sperano di diventare ricchi in fretta. Bene, ce n’erano circa duemila di startupper a Dublino, da tutto il mondo. E indovinate chi è risultato il numero uno? Una startup italiana, Nextome, un navigatore per musei, gallerie d’arte, centri commerciali, aeroporti e hotel; funziona grazie ad una tecnologia basata sul wi-fi che è stata inventata e brevettata da quattro ragazzi pugliesi. Il giorno prima a Brescia il premio Federico Faggin — dal nome dell’inventore del primo microchip — era stato assegnato a un’altra startup pugliese, Blackshape, che realizza aerei in fibra di carbonio. Nel frattempo in California venivano ufficializzate le start up ammesse al prestigioso acceleratore 500startups: su trenta, due sono italiane. Ogni giorno ce n’è una, di storia così. Non sono più casi isolati, o stranezze. Sono un movimento di ragazzi che ha capito che il nostro tempo presenta rischi e opportunità, ma hanno deciso di provare a cogliere le seconde (far partire una start up è infinitamente più facile di una volta), per non tenersi solo i rischi. Forse, se lo sapessero, anche i Neet (i giovani che non studiano né cercano impiego) sarebbero meno rassegnati ad un futuro buio.
Ciò detto, le startup non sono certo la soluzione ai problemi di disoccupazione di un Paese. Non bastano a risollevare il Pil e a invertire il ciclo economico. Ed è fuor di dubbio che fino ad ora la rivoluzione digitale deve mantenere tutte le sue promesse di un mondo migliore. E però una soluzione c’è. Sono finiti i lavori che possono fare le macchine meglio di noi, ma c’è un dannato bisogno di altri lavori: in Europa si calcola un milione di posti di lavoro pronti per persone che siano computer savvy , ovvero a proprio agio con i computer. È su questo punto che in Italia siamo in fondo a tutte le classifiche possibili. Ed è per questo che un ragionamento sui lavori del futuro non può non partire dalla scuola. Sono sempre le skills, le competenze, il prerequisito del work, del lavoro. E le competenze ormai sono, non possono non essere, legate alla rivoluzione digitale.