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“L’astrofisico italiano in copertina su Nature “Per fare scienza è bello avere 30 anni””, di Silvia Bencivelli – La Repubblica 01.04.15

tombesi
Ha risolto uno dei misteri dell’Universo: dove sono le stelle che mancano al conto? E si è guadagnato la copertina di Nature . Francesco Tombesi ha trentatré anni, è marchigiano ma ha studiato a Bologna e adesso è astrofisico alla Nasa, assistant research scientist all’università del Maryland, e associato Inaf. Abita in America da cinque anni e ha appena richiesto la carta verde per restarci. Ma lo ha fatto solo per necessità («mi stava scadendo il visto!»).
Esiste secondo lei un’età migliore per fare scienza?
«Penso che si possa fare buona scienza a tutte le età. Ma tra i trenta e i quaranta in effetti è più facile, perché si hanno più forze, più capacità di mettersi in gioco e di viaggiare per il mondo. Poi in genere gli impegni familiari a questa età sono minori.
E tecnologie e social network non favoriscono i giovani rispetto agli anziani?
«In media gli scienziati se la cavano bene con le tecnologie. Non dimentichiamo che il World wide web è nato al Cern per facilitare le comunicazioni tra scienziati! Poi forse è vero che i giovani sono più ben disposti verso i social network, perché li usano per la propria vita privata. E questo può essere un vantaggio».
Lei è considerato giovane nel mondo della ricerca?
«Sì, anche qui negli Stati Uniti. Ma non nel senso di “inesperto” o di “incapace di assumersi responsabilità”. Qui passano circa quattro anni tra il dottorato e l’assunzione in un’università o in un centro di ricerca. Invece in Italia e in altre parti del mondo passano anche più di dieci anni: significa che a lungo si è un “giovane incapace di assumersi responsabilità”. E questo, oltre a non essere giusto perché ritarda la carriera, ti impedisce di dare alla scienza quello che potresti dare».
Che cos’è la ricerca con cui si è guadagnato la copertina di Nature ?

«Abbiamo dimostrato che il buco nero supermassiccio all’interno delle galassie distrugge i gas che formerebbero nuove stel- le. Cioè: finora le simulazioni al computer con cui studiavamo la formazione delle galassie ci davano un numero di stelle sempre più alto di quello reale. Le ipotesi erano due: che le stelle grandi, esplodendo in supernove, emettessero venti capaci di rimuovere i materiali intorno a loro. O che a farlo fosse il buco nero. Ecco: abbiamo dimostrato che è il buco nero. Che poi, per questo, è stato chiamato Attila».

Come lo avete dimostrato?
«Abbiamo osservato la galassia IRAS F11119 con due telescopi: Suzaku, un satellite a 400 km di altezza intorno alla Terra, che osserva l’Universo nei raggi X. E Herschel, un satellite Esa che osservava l’Universo nell’infrarosso»

Il suo studio è firmato oltre a lei da tre ricercatori con affiliazione americana ma di origine venezuelana, canadese e inglese, e due europei. Come nasce una collaborazione così?

«Abbiamo scritto il progetto per la Nasa. Quando il progetto è stato accettato abbiamo proposto ai due massimi esperti di modelli di studio per i venti nei raggi X e nell’infrarosso di collaborare, cioè lo spagnolo e l’inglese. Ed è nato un team piccolo ma completo. Poi con gli europei abbiamo lavorato a distanza, senza nemmeno incontrarci mai di persona, perché la scienza ormai funziona così: non c’è bisogno di risiedere in un posto in particolare. Infatti collaboro anche con italiani, giapponesi, indiani e così via».

E il suo futuro come lo immagina?

«Beh, se potessi scegliere tornerei in Italia. È per questo che la carta verde la sto facendo solo ora… Attenzione: io non sono “fuggito” in America. Sono venuto qui per la mia crescita scientifica, per poi tornare. Si vedrà se ci riuscirò. Oggi l’Italia ha tutto quello che serve per fare ricerca, ma è un periodo di scarsi investimenti. Mentre qui ho iniziato presto a scrivere progetti per la Nasa: ne ho avuto uno da 250mila dollari e un altro da 170mila. Non solo: partecipo ad altri progetti tra cui quello per la costruzione di Astro-H, il successore di Suzaku».