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“Quel piccolo film che ci insegna ad amare i down”, di Michela Marzano – La Repubblica 05-04.15

È un video pieno di complicità e di amore quello che Giacomo realizza con il fratello Giovanni, un bimbo di 12 anni con sindrome di down. È un video che commuove e fa ridere. Ma è, soprattutto, un video estremamente coraggioso che fa a pezzi i pregiudizi.
ECHE , in pochi minuti, è capace di ribaltare i ruoli e stravolgere le aspettative. Al punto che, dopo un po’, nessuno spettatore sa più quale dei due fratelli sia quello “normale” e quello “anormale”, quello “sano” e quello “malato”. Certo, all’inizio ci sono ben poche sorprese. Il “diverso” è senz’altro Giovanni. È lui che si inceppa. Lui che risponde a casaccio. Lui che perde il filo e sembra proprio non potercela farcela a superare il colloquio di lavoro messo in scena dal fratello. Non sarà mai assunto, pensiamo tutti. Poi però, pian piano, i ruoli si invertono. Ed è proprio Giovanni ad incantarci, con quell’autenticità e con quella gioia di vivere di cui forse i “normali” non sono più capaci.
Allora perché all’inizio, guardando Giovanni, non possiamo evitare di pensare “poverino” — perché lo pensiamo, lo pensiamo tutti, magari anche solo per pochi istanti? Perché abbiamo spontaneamente la tendenza a valutare la qualità della vita di un bimbo con sindrome di down sulla base di standard che consideriamo oggettivi ma che poi, di oggettivo, hanno ben poco?
Forse perché i pregiudizi e i preconcetti con cui ci permettiamo di valutare l’esistenza altrui sono gli stessi che ci avvelenano la vita. Forse perché siamo i primi a passare troppo tempo a preoccuparci di corrispondere alle aspettative altrui. Forse perché ci siamo talmente tanto abituati a sforzarci di apparire come immaginiamo di dover essere che, dopo un po’, non sappiamo nemmeno più chi siamo e cosa vogliamo. A forza di conformarci, ci illudiamo che esista un unico modo per avere successo, riuscire nella vita, non essere dei falliti. A forza di rincorrere la normalità, pensiamo che la felicità la si possa meritare. E invece falliamo. Inevitabilmente e inesorabilmente. Perché rischiamo di passare accanto all’essenziale, ossia a tutto quello che, “anormale”, fa di noi ciò che siamo, ossia degli esseri unici e speciali proprio perché diversi.
Che il concetto di normalità sia solo il frutto di una costruzione, d’altronde, lo si sa ormai da molto tempo. Esattamente come da tempo si sa che non esiste alcun legame necessario tra l’essere esattamente come si immagina di dover essere e la felicità. Anzi. Come spiegava il filosofo e medico francese Georges Canguilhem, ogni persona ha una propria normalità e nessuno, ma proprio nessuno, è uguale agli altri. La diversità non è solo quella di alcune persone, ma è il tratto distintivo dell’umanità. Ognuno con le proprie differenze e con le proprie anormalità. Ognuno con l’equilibrio che riesce o meno a raggiungere facendo i conti non solo con quello che è e con quello che ha, ma anche e soprattutto con tutto ciò che non è e ciò che, molto probabilmente, non avrà mai. Certo, ci sono delle “differenze” con cui è più difficile convivere. Talvolta perché implicano una sofferenza particolare che sarebbe falso e ingiusto negare. Talvolta perché le regole della società non permettono a chi non è “adatto” — ai “quasi adatti” come scriveva Peter Hoeg — di realizzarsi e di vivere degnamente. Soprattutto in un momento in cui, come accade oggi, si ha tendenza a valorizzare sempre e solo il “più”. Correre di “più”. Lavorare di “più”. Essere “più” attenti, “più” precisi, più “conformi”. Immaginando che il “meno” sia sinonimo solo di infelicità e di dolore. Ma una società che non permette alle differenze di convivere è una società indegna, come direbbe il filosofo israeliano Avishai Margalit, che preferisce umiliare invece che accogliere e includere. Dimenticando che talvolta è proprio il “meno” che ci permette di capire che, nella vita, niente è come sembra. E che dietro le maschere e le apparenze si nasconde spesso un mondo sconosciuto che, in genere, contraddice le “norme” e la “normalità”. Come il sorriso e l’autenticità di Giovanni in questo video. Un bimbo di 12 anni con sindrome di down. Che forse è più capace di tanti a cogliere quegli istanti di gioia che appaiono solo quando la si smette di volere e di controllare sempre tutto.