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Finanziamento delle università e costo standard: dal senso comune al buon senso

Le settimane che ci attendono saranno, a mio parere, importanti per il nostro sistema universitario: a Montecitorio sono imminenti le discussioni sul finanziamento del diritto allo studio e del funzionamento universitario e su una proposta di legge sulle contribuzioni universitarie; l’ANVUR è in procinto di illustrare il suo secondo Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca; CUN e CRUI saranno alle prese con il parere da esprimere sul decreto ministeriale che dispone i criteri di ripartizione del Fondo di Finanziamento ordinario (FFO), cioè dei 6,9 miliardi che lo Stato si accinge a trasferire agli Atenei.
Nell’attesa di conoscere nuovi dati sul sistema e di partecipare ai dibattiti annunciati, mi preme spendere qualche riflessione sul “costo standard”, cioè il nuovo meccanismo in base al quale viene calcolata una parte significativa delle risorse che saranno trasferite ad ogni singolo Ateneo.

Nei prossimi giorni proporrò una riflessione più complessiva sulla proposta ministeriale di ripartizione dell’intero FFO.
Su questo “pesante” decreto ministeriale il Parlamento non è chiamato a pronunciarsi, mentre lo è a proposito del DM che ripartisce l’analogo Fondo per gli Enti pubblici di ricerca, eppure non può essere confuso con un provvedimento di mera tecnicalità finanziaria – da affidare totalmente alle valutazioni ministeriali – bensì trattasi di atto di forte carattere politico, dato che dal FFO dipende la vita (la sopravvivenza?) del nostro sistema universitario, vale a dire di una infrastruttura pubblica fondamentale per il progresso civile ed economico del nostro Paese.
Ma andiamo con ordine.

Perdonate se impegnerò parte del vostro tempo e della vostra attenzione. Il tema lo esige.
Il FFO rappresenta la parte del bilancio statale destinata al funzionamento e alle attività istituzionali delle università, comprese le spese per il personale docente, ricercatore e non docente, per l’ordinaria manutenzione delle strutture universitarie e per la ricerca scientifica: in altre parole, esso corrisponde all’intero investimento statale per il funzionamento e per gli investimenti del sistema universitario pubblico. Con il FFO e con le altre entrate di bilancio (principalmente le contribuzioni studentesche e i fondi ottenuti per svolgere specifiche ricerche) le università devono far fronte a tutte le spese (stipendi al personale, utenze, edilizia, infrastrutture tecniche e informatiche, didattica, ricerca, laboratori, biblioteche), in gran parte fisse e incomprimibili.

Dal 2008 il Fondo ha subito una forte decurtazione – ora in fase di arresto ma non di recupero – causata da progressivi tagli veri e propri, dal blocco parziale del turn-over, tuttora vigente, e dal blocco stipendiale, rimosso con l’ultima legge di stabilità ma senza recupero del pregresso, quindi con conseguenze molto pesanti sulle fasce retributive più basse. Peraltro, se è ovviamente positivo che dal gennaio 2016 siano stati ripristinati gli scatti stipendiali, è altrettanto vero che il FFO non ha avuto adeguata compensazione per far fronte a questi costi, obbligatori e aggiuntivi. Per il principio dei vasi comunicanti, dunque, si toglierà da qualche voce per aggiungere alla quota stipendi.

Di quanto è stato decurtato il FFO nel corso degli anni? Nel 2008 esso sommava a 7.443.700.000 di euro, mentre nel 2015 a 6.904.800.000 (somme rivalutate a prezzi 2015). In altri termini, se consideriamo la disponibilità del 2008 pari a 100 (a prezzi costanti), quella del 2015 è pari a 84,6: cioè una riduzione, quindi, del 15,4%. Un calo delle risorse netto e acclarato.
In questo contesto di definanziamento – il più pesante rispetto a qualsiasi altro settore pubblico – come intervengono i criteri di ripartizione, in parte fissati per legge? Vediamo con calma, perché la questione è complessa e complicata.
La legge dispone che una parte – la cosiddetta “quota premiale” – non inferiore “al 18% dello stanziamento complessivo per l’anno 2015, e al 20% per il 2016, con successivi incrementi annuali non inferiori al 2% e fino ad un massimo del 30%”, sia assegnata agli atenei per il sostegno e la promozione dell’incremento qualitativo delle attività delle università statali e per il miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse.
Al momento, l’85% di questa quota premiale dipende dalla Valutazione della Qualità dei risultati della Ricerca (VQR): per la maggior parte (il 65%) in base ai risultati complessivi ottenuti nella VQR e per il 20% in base ai risultati dei docenti e ricercatori immessi in ruolo o che siano progrediti nella carriera (quindi in base alla valutazione delle politiche di reclutamento).
Ne risulta che per la determinazione della quota premiale assai marginale (per il restante 15%) è l’attenzione rivolta alle altre attività (chiamate anche “missioni”) fondanti del sistema universitario, quali la didattica e il trasferimento tecnologico: non si tratta di un dettaglio, ma di una distorsione del dettato della legge, che peraltro porta il sistema ad una generale omologazione nei meccanismi di funzionamento e negli obiettivi. Accade, dunque, che gli atenei “inseguono” inutilmente tutti gli altri nel tentativo di risalire i posti di una discutibile graduatoria fondata su un solo indicatore – qualità della ricerca – che pondera e media tutti gli altri.
D’altro canto, il contesto sociale, economico e produttivo indica la necessità di un sistema universitario “plurale”, nel quale gli atenei – sulla base di chiari indicatori – possano scegliere di approfondire una o tutte le sue “missioni” puntando differentemente sulle innovazioni didattiche, sull’offerta formativa, anche a indirizzo professionalizzante, sugli ambiti della ricerca di base umanistica e scientifica, sulla ricerca applicata e sul trasferimento tecnologico, sulle forme di integrazione culturale e scientifica con i territori di riferimento.
È più di un personale spunto di riflessione, è una richiesta del Paese, delle famiglie e del sistema economico e produttivo, che vorrebbero davvero puntare su una nuova visione del sistema universitario come perno di sviluppo sociale, economico e culturale, un luogo aperto delle città e dei territori e non una cittadella della ricerca; una richiesta su cui richiamare l’attenzione del sistema stesso, del Ministro e dell’ANVUR.

Tornando alle “questioni di calcolo”, nel 2015 la quota premiale del FFO fu “pari a circa il 20% del totale delle risorse disponibili” (DM 335/2015, art. 3), quindi sopravanzò di 2 punti percentuali la soglia del 18% prevista per legge. È un punto importante, su cui ritornerò nella prossima riflessione sul FFO.

Oltre alla “quota premiale”, la restante parte del FFO – definita “quota base” – è rappresentata da una quota calcolata sulla base del cosiddetto “costo standard” , previsto dall’art. 5 della legge 240/2010 che dispone l’“introduzione del costo standard unitario di formazione per studente in corso calcolato secondo indici commisurati alle diverse tipologie dei corsi di studio e ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui opera l’università…”.
Ho usato il condizionale poiché del costo standard è stata prevista un’ applicazione graduale: nel 2015 (anno di introduzione del nuovo meccanismo) è stato il 20% della quota base ad essere effettivamente attribuita con il metodo dei costi standard, mentre la parte restante è stata allocata sulla base delle assegnazioni degli anni precedenti.

Ricapitolando, negli anni a venire la quota premiale dovrebbe via via aumentare sino a raggiungere il 30%, mentre la quota base sarà progressivamente attribuita sulla base dei costi standard. Stante le previsioni di legge, al 30% di premiale ci si dovrebbe arrivare nel 2021, ma si sta accelerando, come precedentemente detto; più rapido il passaggio alla copertura totale della quota base con il costo standard.

A questo punto mi permetto tre considerazioni:
1. poiché quota premiale e quota base su costo standard fanno parte del Fondo complessivo, è ovvio che ogni “premio” per un ateneo costituisce una “riduzione” per un altro: questo effetto distorsivo non si avrebbe se la quota premiale fosse davvero un premio, cioè disponesse di risorse aggiuntive, oltre lo stanziamento di bilancio per il FFO;
2. Secondo il calcolo col costo standard e in base al numero di iscritti servirebbero agli atenei  6,5 miliardi, una quota maggiore dell’intero FFO effettivamente distribuito (conferma del finanziamento inadeguato del sistema): ne consegue che la ripartizione del FFO può tenere conto dei costi standard calcolati per ciascun ateneo solo in quota proporzionale. Per dirla semplice, poniamo di dover sfamare 30 persone e di avere un costo per un pranzo completo di 35 euro ciascuna, ma avendone solo 20 a testa dovremo rinunciare  a una portata: se accade per un po’, si tratta di una dieta, se accade ogni giorno, cioè ogni anno per tot anni, può darsi che le 30 persone si ritroveranno in deficit nutrizionale;
3. sebbene le disposizioni di legge, fin qui richiamate, prevedano quota premiale e quota base, il FFO include anche una quota consistente, che dipende da specifiche disposizioni legislative e, quindi, fisse: nel 2015 queste diverse disposizioni assommarono a più di 600 milioni. Tali quote vincolate per legge (e che nel 2016 sono incrementate, ma ne riparleremo) determinano, di fatto, una contrazione della somma complessiva da ripartire.

Capite bene che qualche perplessità sorge già a questo  punto del mio racconto. Ma c’è dell’altro, e riguarda una delle quote di cui abbiamo parlato sopra, e cioè il costo standard e la modalità del suo calcolo, risultato di una complicata formula di natura statistica (il decreto interministeriale 893/2014 ha disposto gli indicatori di calcolo).
Analizziamolo nel dettaglio. Per ogni studente si stima un costo “standard” derivante dalla somma di vari addendi, di cui tre sono i principali:
(a) il costo standard del personale, stimato sulla base di classi di “numerosità studentesca di riferimento”, cioè classi ottimali di studenti (75 studenti per le lauree scientifico-tecnologiche, 100 quelle umanistico-sociali, etc.), di un numero ottimale di docenti di ruolo per ogni classe (9 per quasi tutte le lauree triennali, etc.) e del costo medio stipendiale del docente della specifica università (in modo da tener conto di università con docenti mediamente più anziani e quindi più costosi, cosa che disincentiva il ringiovanimento del corpo universitario poiché si determinerebbe un abbassamento dei costi presunti);
(b) i costi infrastrutturali e di gestione della didattica da parte dell’ateneo, calcolati con metodi statistici standardizzati a livello nazionale sulla base dei dati di bilancio degli atenei rapportati agli studenti delle varie tipologie di lauree, pesati con fattori che tengono conto dei costi differenti in termini di gestione della didattica delle lauree medico-sanitarie, scientifico-tecnologiche e umanistico-sociali;
(c) un addendo perequativo regionale pari al 3,2% – che è l’aliquota media nazionale della contribuzione studentesca rispetto al reddito familiare medio nazionale – della differenza tra il reddito familiare medio della Lombardia (il massimo in Italia) e il reddito familiare medio della regione dove ha sede l’ateneo.

Il meccanismo risponde agli obiettivi normativi? La stima presunta del costo reale è neutra o ha effetti (correttivi? distorsivi?) sul sistema non previsti dalla legge? Vediamo.

Il calcolo del costo standard del personale fa riferimento alle classi ottimali: i corsi di laurea che hanno meno studenti iscritti rispetto al numero ottimale, anche nel caso siano eccellenti o presidi culturali importanti per il territorio di riferimento, ricevono automaticamente un FFO proporzionalmente più basso, sebbene il numero dei docenti necessari allo svolgimento della didattica e le spese di gestione non possano essere ridotte in proporzione.
Le classi ottimali degli studenti, nel calcolo del costo standard, si assumono uguali per tutto il Paese, pertanto non tengono conto né della densità di popolazione del territorio di riferimento, né delle eventuali oggettive carenze infrastrutturali e dei conseguenti costi dei trasporti.
Come non tengono conto della diminuzione delle immatricolazioni (solo in parte giustificato dal calo demografico), che se si è forse arrestata per gli atenei settentrionali, continua a penalizzare quelli del Sud (con quale eccezione), e in misura preoccupante le isole, luoghi dove si registrano in generale una più bassa percentuale di diplomati che proseguono gli studi e una maggiore incidenza di migrazione verso gli atenei settentrionali, dove gli immatricolati cercano maggiori opportunità nel diritto allo studio, nell’offerta didattica e formativa e nel contesto più favorevole per il lavoro successivo alla laurea.

Siamo certi che questo modello teorico, in particolare quando andrà a pieno regime, non comporti riduzioni sostanziali nell’offerta formativa in alcuni territori del Paese? Forse coincidenti con territori deboli  su cui si sta cercando di intervenire per invertire bassi indici culturali, sociali, economici?

Al netto delle politiche di razionalizzazione dell’offerta formativa su base territoriale, da programmare soprattutto in certe aree del Paese, il costo standard così impostato potrebbe infatti condurre alla chiusura di molti corsi di laurea a carattere scientifico e specialistico, soprattutto nelle aree interne e marginali del Paese, in particolare nelle Isole (con significativa accentuazione per la Sardegna), o anche nelle aree decentrate del Nord, pur in assenza di una riflessione approfondita e men che mai condivisa sui costi culturali, sociali ed economici di una simile scelta.
Un esempio? In un Paese reso fragile dal dissesto idrogeologico come il nostro, nessuno dei corsi di studi in Geologia al Sud raggiunge la numerosità di iscrizioni di riferimento: secondo il regime di calcolo attuale, per un ateneo meridionale, aprire un corso di studi di geologia è una operazione “in perdita”. Ma, non aprirlo sarebbe, per quel territorio, una operazione “suicida”.

Altra considerazione: I valori numerici utilizzati per determinare il costo standard fanno riferimento esclusivamente agli studenti in corso, cioè iscritti da non più di tre anni alle lauree triennali e da non più di due anni alle lauree magistrali. La legge, cioè, dispone che non sia assegnato il costo standard corrispondente agli studenti fuori corso perché gli atenei, per le necessità dei loro bilanci, si avvalgono già delle contribuzioni di questi studenti e che in termine di gestione non “pesano” più sull’organizzazione didattica.
Questa impostazione è priva di qualsiasi valutazione sulle ragioni di contesto per cui questi studenti sono in ritardo. Eppure è noto che anche in termini di successo scolastico, di regolarità nel corso degli studi universitari e di abbandono degli studi, anche per le serie carenze economico-sociali e logistiche, prima fra tutte quelle dei trasporti locali, il divario Nord e Sud si sta allargando.
Se poi facciamo mente locale alla quota premiale e allo scarsissimo peso dato alla didattica in termini di valutazione degli interventi a favore del successo universitario, allora appare chiaro il corto circuito in atto.

Non affronto, in questa sede, le responsabilità – in alcuni casi pesanti – nella gestione delle università meridionali non sempre all’altezza delle necessità. Ma, a livello di sistema, ritengo che le scelte adottate negli ultimi anni non tengano in sufficiente conto i contesti dove esse si trovano ad operare e, soprattutto, le differenze economiche e sociali sempre più pronunciate che si registrano tra il Meridione e il Centro-Nord, o addirittura all’interno del Meridione perché la situazione delle isole (soprattutto della Sardegna) è già diversa da quella delle altre regioni meridionali.
Pertanto, se si vuole evitare una rapida desertificazione del Meridione – in termini di studenti, di corsi di laurea e persino di atenei – e, più in generale, un arretramento dell’intero sistema universitario, bisogna valutare attentamente i meccanismi di calcolo di cui sopra. Intervento necessario, ma non sufficiente, dato che la prima “mossa”, non più procrastinabile, è di ritornare ad investire in modo adeguato nel finanziamento statale alle università.

Poi, oltre agli “aggiustamenti” necessari per far fronte alle distorsioni derivate dal costo standard prima evidenziate, andrebbe anche attentamente ripensato il metodo di calcolo dell’addendo perequatico regionale.
L’attuale metodo è ispirato dall’idea, corretta, di compensare le università della minor leva contributiva che possono applicare agli studenti in regioni a reddito medio familiare più basso.
Ma il reale effetto perequativo è davvero minuscolo: ad esempio, nelle tre università siciliane l’addendo perequativo pesa solo per circa il 5,9% del costo standard totale di ogni studente, così come per gli atenei sardi pesa ancora meno, poco più del 3%, mentre i divari economici, territoriali e infrastrutturali tra Sicilia, Sardegna e Lombardia corrispondono certamente a indici molto maggiori.
È del tutto evidente che in tal modo la previsione disposta dalla legge di individuare degli indici di calcolo commisurati ai differenti contesti economici, territoriali e infrastrutturali si annulla per inconsistenza ed è, al momento, disattesa.

Sarebbe infine opportuno riconsiderare una vera lacuna della normativa universitaria, quella riguardante gli studenti universitari part-time. La nozione esiste già ma non è stata affatto declinata nei fatti come l’evoluzione della società e dell’organizzazione universitaria richiederebbero,  nonostante che il problema fosse stato già perfettamente individuato nel 1998 dal Rapporto Martinotti. Parliamo di quasi 30 anni fa. Oggi, le esigenze di tempo e di organizzazione sono ancora più plurali di allora.
Questa possibilità appare invece del tutto marginale, anche nei calcoli del costo standard, quando il numero di studenti universitari che svolgono qualche forma di attività lavorativa è notevole e sempre maggiore. Sia per mantenersi agli studi (non dimentichiamo che l’Italia è la cenerentola europea anche nel campo del diritto allo studio universitario), sia per alternare studio e lavoro, a vantaggio di entrambi, in un sistema segmentato di studi universitari (laurea triennale, laurea magistrale, master, dottorato di ricerca) e in un mondo del lavoro che tende ad apprezzare questo atteggiamento degli studenti, in fondo anticipatore del lifelong learning a cui la società attuale aspira.
Sarebbe quindi utile un intervento normativo che tendesse a portare allo scoperto (senza eccessivi burocratismi) lo studente part-time per quantificare meglio il costo standard degli studenti, senza dover ricorrere al sistema on-off (1 gli studenti in corso, 0 gli studenti fuori corso) che è insito nell’attuale formula di calcolo e di ripartizione del FFO. Andare incontro alle esigenze dell’utenza e non viceversa, dovrebbe essere un obiettivo, specie per un sistema che ha bisogno di guadagnare e non perdere quella stessa utenza.
In conclusione, la prima applicazione del costo standard (FFO 2015) fornisce elementi concreti per ritarare la disciplina di finanziamento e (ri)valutarne attentamente gli indici di calcolo per suggerire miglioramenti, come quello ragionevole e da prevedere subito di non incrementarne la quota calcolata con costo standard nell’ambito della quota base del FFO per il 2016: una fase di analisi e riflessione che, unitamente al mancato incremento delle risorse, richiederebbe di mantenere per l’anno in corso i medesimi parametri del 2015 (ma ne parliamo nel prossimo approfondimento).

Per concludere va aggiunta un’ultima, per l’ordine ma non per importanza, notazione. La Commissione Europea ha recentemente pubblicato il proprio rapporto di valutazione sull’Italia (Country Report Italy 2016): mentre ha valutato positivamente le azioni previste nel campo dell’istruzione primaria e secondaria, per quanto riguarda la parte della formazione superiore (pp. 82-83), il Report segnala chiaramente e inequivocabilmente la “Scarsità di finanziamenti, sia per funzionamento ordinario del sistema, sia per il Diritto allo Studio”.
Puntuale e specifica raccomandazione europea  che è d’obbligo accogliere, come le altre. Ce lo chiede l’Europa, si diceva una volta. Oggi ce lo chiede il Paese e ce lo suggerisce il buon senso, lasciando da parte pregiudizi da senso comune che han pesato sul sistema universitario, poiché è il sistema pubblico che è stato ed è soggetto in misura massiccia a giudizi di valutazione. Anche perché i continui depauperamenti e le distorsioni di calcolo del sistema non li pagano gli eventuali “rei di colpe” (capitolo da affrontare, ma in altro momento), bensì studenti, famiglie, territori.