cultura

Dalla farsa alla tragedia

Il libretto è già stato letto, il melodramma intitolato «decreto-legge per il riordino delle fondazioni lirico-sinfoniche» già visto e rivisto. Il rozzo ministro berlusconiano, il bieco baritono Bondi, che infierisce contro la Cultura. I sindacati che sparano acuti e scioperi nella difesa della Cultura oltraggiata e, già che ci siamo, di indifendibili privilegi castali e corporativi.
Intorno, il coro stonato delle opposte tifoserie politiche che più strepitano quanto meno conoscono la materia: anche perché non è che, a parte le prime con i fotografi, di politici all’opera ne vediamo spesso.

E non mancano le comparse: chi i teatri li dovrebbe gestire, sovrintendenti e direttori artistici che, con le dovute eccezioni (il migliore, non a caso, abbiamo dovuto importarlo dalla Francia) sono dei politicantucoli finiti in teatro perché troppo scarsi o troppo poco scaltri per assicurarsi una Asl.

Il nostro è davvero uno strano Paese. Che le «fondazioni lirico-sinfoniche» (un regalo della riforma fatta da Veltroni nel ’96 e ovviamente fallita) non possano andare avanti così è del tutto evidente. Il problema è semplicissimo: se la maggior parte delle risorse (da un minimo del 56% a un massimo dell’80) di ogni fondazione serve solo a pagare gli stipendi di chi, più o meno (più meno che più, dice il governo) ci lavora, non resta nulla per l’attività, insomma per produrre spettacoli. Come se un ospedale spendesse tutto per pagare lo stipendio a un chirurgo ma il chirurgo non potesse operare perché non ci sono i soldi per comprare i ferri e le bende.

Da qui stagioni che, sempre beninteso con le ridovute eccezioni, non sono solo modeste per qualità (perché non è che questi chirurghi siano tutti dei virtuosi del bisturi) ma soprattutto disperanti per quantità. Pochi spettacoli, pochissime recite e molti dipendenti pagati per non lavorare. Poi si blatera di eccellenze italiane, quando basta comprare un biglietto low cost o anche solo qualche dvd per rendersi conto che qui di eccellente c’è solo l’ignoranza. Tanto più in questi anni dove, alla faccia della crisi che pure colpisce duro, nel mondo civilizzato le platee sono piene, anche di giovani, e sulle scene soffia impetuoso il vento della fantasia, della novità, della spregiudicatezza, del coraggio (da noi, si sa, prendono ancora sul serio Zeffirelli).

Per l’opera, globalmente, questo è un buon momento. In Italia, invece, il governo non trova di meglio che tagliare gli stipendi per decreto, mentre i sindacati scioperano per difendere il diritto dei professori d’orchestra, ovviamente culturale, a ricevere un’indennità se indossano il frac. Ma non si potrebbe, per una volta, far finta di essere seri? Mettersi intorno a un tavolo, esaminare le cifre, studiare le alternative e far funzionare i teatri come un normale servizio pubblico, come succede a Londra o a Zurigo o a Berlino, dove l’opera la si fa molto di più e molto meglio che in Italia e senza decretare o scioperare d’urgenza? Magari ricordandosi di tre dati di fatto.

Primo: o l’opera è sovvenzionata o l’opera non si fa, quindi la politica decida una volta per tutte se vuole investirci dei soldi. Secondo: l’opera è il principale contributo della civiltà italiana a quella mondiale degli ultimi quattro secoli e la nostra lingua e la nostra cultura soprattutto per l’opera continuano a essere conosciute e amate. Ieri sera, 30 aprile, si sono date in tutto il mondo 93 rappresentazioni: bene, 38, poco meno della metà, in 15 Paesi di tre continenti, erano d’opera italiana. Terzo: l’opera non solo ci rappresenta all’estero, ma in patria: se un’identità nazionale c’è, l’hanno fatta anche e forse soprattutto Rossini e Verdi e Puccini e tutti gli altri. Quindi prima di chiudere i teatri e buttare via la chiave bisognerebbe pensarci un attimo. Giusto per non passare dalla farsa alla tragedia.

La Stampa 01.05.10