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"La sconfitta è certa se ci facciamo la guerra. Il potere è contro di noi", di Mariagrazia Gerina

La velina «condannata» alle battute del conduttore. La studentessa che non riesce a credere nei propri mezzi. La ragazza anoressica. L’attrice porno. La donna sempre più sola, ad affrontare, quasi come una colpa, la maternità, l’ambizione, la precarietà o la necessità di conciliare le sue due vite. Mentre parliamo, la casa in cui è cresciuta, a Roma, si popola di tutte loro. Donne nell’Italia di Berlusconi. Un paese che le «offende». Le mette in ridicolo. Le vuole «belle», ma soprattutto «zitte», specie quando si affacciano nella vita pubblica. Altrimenti le intralcia. Sii bella e stai zitta (Mondadori, 160 pag.), è l’imperativo che Michela Marzano, giovane filosofa italiana, che vive in Francia, a Parigi, dove da più di dieci anni studia e pubblica e da pochi giorni, non ancora quarantenne («ma li faccio tra pochissimo»), è diventata professore ordinario, prova a rovesciare. In un saggio nato dalla cronaca di un paese in declino. Per ridare fiducia alle donne che possono cambiarlo. E istigarle alla «resistenza». Partiamo dall’autrice: un «cervello in fuga», poi improvvisamente l’Italia si accorge di lei. «Sì, è successo quando Nouvelle Observateur mi ha inserito tra i cinquanta pensatori più influenti. L’Italia deve sempre aspettare un riconoscimento che avviene altrove. Comunque, dalla Francia ho sempre pensato all’Italia come al «mio paese che mi manca» e quando ho avuto la possibilità di inserirmi nel dibattito italiano l’ho colta, non tanto come opportunità – le opportunità le ho avute, «strappandole», in Francia – quanto come un dovere. Dall’Italia non mi aspetto nulla, ma vorrei restituire quello che mi ha dato: se non avessi studiato alla Normale di Pisa…» Chi è che in Italia vuole mettere a tacere le donne? «Berlusconi, per esempio, quando dice che bisogna bloccare gli scafisti «a meno che non trasportino belle donne» o quando dice a Rosy Bindi «lei è più bella che intelligente»: un tipico hate speech, un «discorso dell’odio» che serve a chiudere la bocca all’altro e viene di solito usato per mettere a tacere le minoranze. Più spesso il messaggio passa attraverso le immagini…» A Berlusconi è dedicato il capitolo «Quell’uomo ci offende». «Berlusconi ha fomentato una nuova forma di maschilismo. Ma lui è il sintomo di una mentalità, rappresenta qualcosa: un pezzo d’Italia che a me non piace». Se lui è il sintomo sua moglie cos’è? «È un segnale che fa ben sperare. Nonostante abbia trascorso vent’anni al suo fianco, poi ha deciso di andare oltre». Da Veronica Lario a Rosy Bindi, se qualcosa si muove in Italia è donna? «Io credo che l’indignazione di fronte a certi fatti sia stata molto importante. Ha permesso di cominciare a tradurre a livello pubblico l’indignazione che molte donne vivevano a livello privato». La «regressione» che lei descrive, comunque, non riguarda solo l’immagine della donna, è generale, fa traballare la Ru486 come il diritto alla maternità. «In Francia Elisabeth Badinter ha appena scritto un libro per denunciare che quando le donne tornano dal congedo maternità si ritrovano la carriera sbarrata. Almeno però lì ci sono i nidi e gli strumenti che permettono di continuare a lavorare. E ci sono anche alcune politiche aziendali per contrastare questa tendenza. In Italia, no, questo è il punto. E quando c’è un problema con i bambini sono le donne a doversene occupare». Nel libro si parla anche di donne che, come lei, scelgono di non avere figli… «Il punto però è che alcune sono costrette a scegliere di non diventare madri perché l’asilo nido costa più del salario che percepiscono. Altro che i privilegi di cui parla il ministro Gelmini, qui siamo alla disuguaglianza. Il suo invito a ricominciare a lavorare subito dopo la gravidanza è molto grave. Come in Francia il ministro Rachida Dati che è tornata al lavoro cinque giorni dopo aver partorito. Sono messaggi sbagliati, che colpevolizzano le donne, come se una potesse riuscire nella vita solo a patto di fare tutto nello stesso momento, avere un figlio ma fare anche come se la maternità non avesse mai avuto luogo. Oltretutto loro lo possono fare perché hanno i soldi, le altre no». Donne che sacrificano la maternità, donne che sacrificano la carriera. Percorsi diversi che spesso sul luogo di lavoro entrano in conflitto. Perché? «È verissimo. Il problema è che in una situazione di difficoltà ognuno difende il proprio territorio. Per uscire da questa conflittualità bisogna modificare la situazione generale, agire a livello sociale (nidi, servizi) e culturale (modificare la mentalità) per evitare che una scelta diventi penalizzante e venga quindi opposta all’altra. Mettere le une contro le altre è funzionale a un potere che non è amico delle donne: dividerle per poterle meglio dominare». Anche le donne così finiscono per essere parte delle regressione? «Quando si è dentro un meccanismo è difficile uscirne. Le femministe storiche hanno lottato e vinto una serie di battaglie, ma poi anche loro si sono indurite ed è mancata una educazione all’uguaglianza per le nuove generazioni. La mia generazione, in particolare, ha pensato che per avanzare nella carriera bisognasse comportarsi esattamente come gli uomini. Ora c’è un ritorno boomerang della femminilità. Le giovani donne danno molta importanza alla vita privata e meno alla vita professionale. Ma anche questo è un errore». Lei descrive quasi con rabbia la mancanza di fiducia che hanno le sue studentesse. «Le donne, in generale, sono più critiche con se stesse e tendono a colpevolizzarsi. Ma questo non è genetico, parte dall’educazione. Al bambino una stupidaggine si perdona, a una bambina molto meno. In un college in Francia hanno sottoposto gli alunni a delle prove: i ragazzini erano soddisfatti, le ragazzine meno, anche se poi avevano fatto un lavoro migliore dei loro compagni». Come liberarsi da questa sfiducia? «Non ci sono ricette. Bisognerebbe ricominciare dalle scuole. L’educazione serve più delle quote rosa. E poi bisogna fare rete. In Francia e nei paesi anglosassoni funziona. Invece di continuare a farci la guerra tra di noi dovremmo mettere insieme le forze. Anche da un punto di vista matematico la cooperazione è la scelta che funziona di più».

L’Unità 24.05.10