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"Belluno se ne va e la Lega si spacca", di Luca Romano

C’è sempre qualcuno più autonomista di te: il Veneto che perde pezzi è una bomba. Ieri sera il consiglio provinciale di Belluno ha approvato quasi all’unanimità (21 favorevoli e due contrari) il via libera al referendum per l’annessione alla regione Trentino-Alto Adige.
La votazione ha sancito una spaccatura evidente nella Lega Nord, cui appartiene il presidente della giunta, Gianpaolo Bottacin, favorevole, ma anche i due contrari. Uno di questi, Gino Mondin, è il proprietario dell’hotel Stazione di Calalzo, ritrovo abituale di Bossi, Tremonti e Calderoli per le loro riunioni conviviali in Cadore. E nella sua contrarietà al referendum, infatti, oltre alla critica di rito alle spese per la consultazione – ritenute inutili – c’è anche il retropensiero della posizione nazionale e regionale, di Bossi e di Zaia, che hanno bollato l’iniziativa come una guerra tra poveri, che divide il fronte per il federalismo proprio all’ultimo miglio dalla sua realizzazione.
La posizione ufficiale della Lega Nord ha ormai caricato il federalismo fiscale di un valore miracolistico, capace di far superare d’incanto tutti i problemi dei territori. Durante la campagna elettorale per le regionali, nella primavera scorsa, Zaia lo aveva ripetuto con ostinazione: «L’obiettivo è l’autonomia e il federalismo per tutto il Veneto, quella della Provincia di Belluno non serve, verrà incorporata in quella dell’intera regione». Ma il territorio, in realtà, sta ormai esplodendo. La provincia di Belluno, interamente montana, ha completamente perso una funzione strategica sul corridoio dell’Alemagna, la sua natura “ordinaria” l’ha sfibrata nel contatto con le confinanti specialità di Trento, Bolzano e del Friuli. I promotori del referendum hanno documentato questa esasperazione da costante deprivazione sociale ed economica su basi incontrovertibili: il costo della vita, l’invecchiamento, l’esodo dei giovani, il dissesto idrogeologico, l’abbandono della montagna per ragioni economiche e logistiche: Una serie di eventi demografici «che stanno eliminando i bellunesi montanari nelle proprie basi biologiche antropologiche.
Ogni anno muoiono 800 bellunesi più di quelli che nascono. Il saldo naturale (nati meno morti) è negativo dal 1990. Non ci sono più le forze per ricambiare i 110 mila attivi (ne mancheranno circa 13-15 mila entro il 2020) e senza gente che lavora non si potrà mantenere l’attuale pil, né mantenere tutte le persone inattive che diventeranno di più degli attivi».
I promotori hanno attaccato duramente non il centralismo di Roma, ma quello di Venezia, la «cecità della regione Veneto, incapace di produrre politiche, agricole, commerciali, industriali, scolastiche e turistiche su misura della montagna. Le élite dirigenti del Veneto non hanno alcun interesse per la montagna o, meglio, non ne hanno alcuno per i montanari», come hanno scritto nel Manifesto che vuole fondare la Dolomiti regione con i vicini di Trento e Alto Adige.
Maurizio Fistarol, oggi senatore, già sindaco di Belluno e alfiere della battaglia autonomista e federalista del suo territorio, sottolinea la forte responsabilità della regione Veneto: «Di fatto questo è un referendum secessionista in cui si condensa tutto il malessere per un’attesa che aveva suscitato grandi speranze, basata su un’aspettativa, neppure estremistica, di autonomia amministrativa, regolamentare e organizzativa della parte montana della regione. Da dieci anni si discute lo statuto regionale e questa posizione autonomistica aveva trovato una collocazione che la Lega a Venezia ha cancellato, in nome di un federalismo ancora molto aleatorio, da realizzare.
E inevitabilmente con la mancanza di risposte concrete si fanno strada rivendicazioni e rancori di ispirazione fortemente identitaria». Ora la palla passa alla Cassazione.

da Europa Quotidiano 12.01.11