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"Pari dignità oltre le "grazie" del corpo l´etica pubblica non è moralismo", di Roberto De Monticelli

Sono felicemente accorsa all´appello di Libertà e Giustizia, ed ero con le anime belle del Palasharp, “miserabili” azioniste, come qualcuno ha scritto. Mi ero invece dimenticata di firmare l´appello in difesa della dignità delle donne. Rimedio subito. Ma forse c´è una ragione per cui la questione dell´immagine delle donne sembra passare in secondo piano rispetto al resto di quello che sta succedendo. Non a caso forse anche due scrittrici che mi hanno preceduto nei loro interventi su questo giornale la prendono un po´ larga, con due bellissime immagini, facendo della donna un simbolo, l´una della verità stuprata quotidianamente, l´altra della nostra povera Italia umiliata e offesa. Non capisco invece un´acca dell´accusa che altre fanno di “moralismo”: questa parola mi sembra la parola più usata a sproposito dell´ultimo mezzo secolo. Questa parola che mezza Italia spara con disprezzo sull´altra mezza, su quella più sconcertata di fronte alle peggiori infrazioni all´etica pubblica che si possano immaginare, perpetrate per di più da uomini (e donne) nel pieno abuso delle loro funzioni pubbliche. Ma veniamo all´immagine delle donne, e alla ragione per cui una quasi perfino se ne dimentica, di fronte a tutto il resto. Come ha scritto un signore che si definisce “liberale” – e certo anche qui la tolleranza nell´abuso delle parole è degna di nota – noi signore, almeno fino a una certa età, stiamo “sedute sulla nostra fortuna”. Lui invece no? Ma si rassicuri, che il sesso maschile resta, a quanto ci raccontano certi primi ministri e i loro prosseneti, affascinantissimo ben oltre quell´età. Al signore liberale però vorrei chiedere anche se incoraggerebbe sua figlia o sua nipote a far partecipare qualche utilizzatore finale di quella bella grazia su cui siede. Perché immagino che sua figlia o sua nipote, esattamente come lui, vorrebbero essere riconosciute portatrici anche di altri valori e quindi di altre fortune che quella, spesso graziosa e sempre utile, parte del corpo. E dunque sentirebbero un po´ offensivo sentirsi monetizzare in relazione esclusiva a quella parte. Esattamente, suppongo, come lui. Se invece ci fosse alcuno, un bello stallone poniamo, che umilmente e orgogliosamente rivendicasse la sua stallonità come la sua maggior gloria, e/o la sua miglior risorsa economica, benvenuto stallone: questa sarebbe la sua legittima scala di valori, diciamo così il suo ethos; e siccome è il suo, nessun altro può metterci il becco – nell´esatta misura, s´intende, in cui non lede né il codice penale né il rispetto dovuto a qualunque altra persona. Né, ancora più ovviamente, la diversa scala di valori necessariamente legata a una carica o funzione pubblica. (Orrenda lesione sarebbe certo – ipotesi inimmaginabile! – un primo ministro che praticasse ed esaltasse come sua miglior virtù l´arte dello stallone). Concludendo: una cosa è che uno senta e scelga i valori del sedere, come la cosa di sé migliore e più preziosa; tutt´altra cosa è che glielo imponga un altro, magari solo per via di generalizzazione illiberale, del tipo: non lo vedete, uomini belli, che state seduti sul vostro vero valore? Ecco, il problema è tutto qui. Questa domanda era una introduzione elementare al concetto di “avere pari dignità e diritti”, cioè al principio che sta alla base non solo della giustizia morale personale, ma anche dell´etica pubblica, e di tutta la serie dei diritti, civili politici e sociali, su cui si fonda una democrazia liberale. Ma se perfino i grandi “liberali”, in Italia, questo principio non lo hanno ancora capito, val proprio la pena di scendere in piazza un´altra volta, a ribadirlo.

La Repubblica 11.02.11

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“Se io facessi come lui”, di Stefano Menichini

Sono il direttore di questo giornale. Nel nostro piccolo, ho un ruolo di potere interno e di rappresentanza esterna. Non consentirei a nessuno, qui dentro, di sindacare sulla mia vita privata, i miei gusti e costumi sessuali, i miei eventuali eccessi, i miei comportamenti. Se però questi ultimi, favoriti dal mio ruolo di potere, dovessero coinvolgere il luogo che dirigo, alterando i rapporti con le altre persone. O condizionare l’immagine esterna di Europa, per colpa della tracimazione delle abitudini private del suo direttore.
Beh, in questi casi sarei stato io a sovrapporre vita privata e responsabilità pubblica, e penso che dovrei risponderne.
Se poi qualcuno volesse approfittare della situazione per farmi fuori, ne penserei tutto il male possibile ma dovrei riconoscere di essermi offerto agli attacchi. Non so quale difesa invocherei. Credo nessuna.
Non riesco a trovare modo migliore per spiegare perché credo che Berlusconi debba rispondere della propria assenza di autocontrollo e della esondazione dei propri costumi privati, reiterati e pubblicamente rivendicati.
Non avrei detto nulla di diverso se Piero Marrazzo si fosse aggrappato all’incarico politico, dopo aver dato prova di non saperlo tener lontano dalle proprie frequentazioni notturne.
Non trovo traccia di moralismo in questa convinzione, tanto meno di giustizialismo.
Non dovrebbe essere difficile capire perché un principio valido in qualsiasi contesto, valga moltiplicato mille per un capo di governo, per un uomo che si è proposto e ha ricevuto fiducia come leader di una Nazione.
Non penso che siamo tutti eguali. Continuo a supporre che un leader debba essere portatore di virtù e d’esempio, o almeno presentarsi coerentemente come tale (difendo la dose omeopatica di ipocrisia che tiene in piedi il mondo). E tutto ciò prescinde dal processo di Milano e dai suoi esiti, perché sulla sostanza della vicenda Ruby non è possibile nutrire dubbi.
Tra i difensori di Berlusconi qualcuno ha timidamente chiesto, all’inizio, almeno un atto di contrizione, delle scuse per aver involontariamente coinvolto un intero paese in una situazione così assurda e imbarazzante. Né loro né noi abbiamo ascoltato qualcosa del genere, ma solo improbabili ricostruzioni che negano l’evidenza di un presidente del consiglio intorno al quale si organizza e agisce un giro di prostituzione.
Loro – i Ferrara, i Bossi, i Feltri – hanno subito rinunciato all’assurda pretesa di un atto pubblico di scusa, e si sono allineati nella difesa più oltranzista. Noi non rinunciamo. Tutti, al posto suo, si sarebbero scusati. Io per esempio l’avrei fatto (prima di dimettermi, ma questa poi è fantascienza).
Quanto alla discussione che s’è accesa fra le donne a proposito della manifestazione di domenica, e sulla quale intervengono oggi su Europa Mariapia Garavaglia e Franca Fossati, non vorrei pronunciarmi.
Prendo per buona la garanzia (data però ex post) che l’appello promotore non intendeva distinguere fra buone e cattive, virtuose e viziose, madonne e puttane: fra le tante regressioni alle quali siamo costretti, almeno questa non imponiamocela da soli. Ricordiamoci sempre che abbiamo una vita davanti, dopo Berlusconi, e sarebbe brutto ritrovarci in un paese dove proprio tutti i pozzi sono avvelenati dal disprezzo reciproco.
Solo una cosa, a proposito delle donne della destra di governo che prima di scendere nell’attuale trincea in difesa del premier erano solite invocare dagli scranni che occupano la cancellazione del ’68, matrice secondo loro del lassismo che rovina l’Italia.
Seriamente argomentata, non sarebbe neanche una tesi peregrina. Ma per essere convincenti, Gelmini, Santanché o Roccella dovrebbero prima riconoscere che in un paese che esalta i diritti privati, ignora i doveri pubblici e rifiuta l’assunzione di responsabilità, il più strabico di tutti è proprio il loro capo, Silvio Berlusconi.
Il più impenitente figlio del ’68, dovremmo dire.

da Europa Quotidiano 11.02.11