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"Per le regole, non per la virtù", di Federico Orlando

Domani donne e uomini manifesteranno in tante piazze d’Italia per contestare – ha spiegato la promotrice dell’iniziativa, Cristina Comencini – la rappresentazione che del rapporto uomini- donne ha dato il presidente del consiglio. Liliana Cavani, regista di una generazione più adulta, ha aderito con questo slogan: “Mi riprendo il mio futuro”. Le ricorda le donne partigiane, che hanno dato all’Italia il suffragio universale, la repubblica e la Costituzione.
Il cammino delle donne era cominciato così. Ma la crescita fu fermata, il sonno della passione civile ha provocato per un quarto di secolo il sonno della Costituzione, e la maggior parte delle donne fu relegata nel “privato”. Il futuro delle donne, ch’era cominciato, “è stato interrotto”. Ora è il momento di rimetterlo in moto. Si deve ricongiungere il presente alla breve stagione delle lotte sociali, civili, studentesche, femministe degli anni Settanta e Ottanta: la stagione d’oro delle nostre conquiste, volute dai gruppi più avanzati della società.
Bisogna sbrigarsi a riprendere quella strada. L’Italia sembra Acciaio, il romanzo di Silvia Avallone. Siderurgia, famiglie, scuole, uomini, donne, giovani, amicizie, relazioni, tutto finito. Finita anche la sabbia, l’acqua, il mare, la città, la campagna, tutto, salvo la fruibilità momentanea e violenta di rapporti umani, sociali, di potere, di cui il nostro presidente del consiglio dà rappresentazioni.
Ecco perché le 70 piazze di domenica: “Se non ora, quando?” Ma non è così facile. Abbiamo sentito donne e anche uomini, tutti ostili (ça va sans dire) al regno di Semiramide, spiegare che tuttavia loro non saranno all’appuntamento di domenica. C’è chi teme la partecipazione degli uomini, che è contro tutte le Tavole dell’igiene femminista, della cultura della differenza.
C’è chi pensa all’uomo solito stupratore, che stavolta chiede di far massa con le vittime, per respingere lo Stupratore Maggiore e poi continuare come prima. C’è chi pensa che i magistrati hanno ecceduto nella spettacolarizzazione dell’inchiesta e che l’opposizione ha fatto un minestrone di giudiziario, etico e politico.
C’è chi pensa che proprio noi spiriti liberi e secolarizzati diventiamo illiberali con le scelte delle fanciulle di Arcore o palazzo Grazioli: delicatezza che si potrebbe lasciare tutta a Giuliano Ferrara, che spaccia la speranza di pulizia dei cittadini in programma di repubblica della Virtù (la virtù dei roghi e delle corde).
Furbata che si autocondanna per la spregiudicatezza dell’autore e porta in evidenza quanta viltà si sia infiltrata dalle parti nostre, quante giustificazioni per evitarci il fastidio della lotta (altro che le partigiane della Cavani). C’è un altro problema. Noi che andremo all’appuntamento, sappiamo che Berlusconi non lascerà il Palazzo, perché non crede che la politica abbia una forma estetica da salvare e una cultura. Anzi, siccome non crede che gli interlocutori della politica siano cittadini, ma clientes che lui difende dai comunisti come Nerone la plebe dai cristiani, così si abbandona ad autolegittimazioni che già in altre età e latitudini hanno sorretto momentaneamente i troni.
Ma è aspirare troppo che si torni a comportamenti come quelli di De Gasperi o Prodi, saltando a pie’ pari (gli italiani ne avrebbero paura) le drammatiche persone di Moro o Berlinguer? È chiedere troppo manifestare non per la Virtù, nel senso beghino della parola, ma per le regole della democrazia, che non consentono né al capo del governo né ad altri d’essere sciolto dalle leggi? Può oggi un cittadino italiano aspirare a vivere la vita pubblica e il costume civile come un qualsiasi inglese, uno spagnolo, un tedesco, un francese, un austriaco, uno scandinavo, o gli è proibito anche sperarlo? Perché se così fosse, se ci fosse proibito uscire dal telemodello che la democrazia dispotica ci impone, chi (Europa a parte) ci salverebbe da tragici sviluppi? Per quanto riluttanti alla tragedia, gli italiani finiscono col cadervi. E si risvegliano solo a cose fatte.
Non saremmo arrivati a questo livello di paese – camorre, sfregiatori di monumenti, immondizia, evasione scolastica, prostituzione minorile, evasione fiscale, tangentopoli, politica servile – se avessimo fatto qualcosa per migliorare a scuola, in famiglia, nei luoghi di lavoro, nella società generale il rapporto tra uomini e donne, portandolo ai naturali sviluppi anche nelle relazioni di cittadinanza.
La politica non sarebbe diventata rifugio per starlette e veline se fosse stata presidiata da donne, e le assemblee non sarebbero diventate malavitose se le avessero presidiate uomini e donne di qualità. Vi sono governi, vicino casa nostra, fatti per metà di uomini e per metà di donne. Vi sono ministre della difesa che sono andate in visita al fronte in condizioni fisiologiche che l’uomo non conosce.
La novità sarà quando non scriveremo più di queste cose, perché non saranno più una bandiera o un’eccezione da sventolare, ma rientreranno nei comportamenti “normali”.
Quel giorno verrà prima se le donne faranno la loro parte senza corrucciata ostilità, non sciupando energie intellettuali nell’attesa di realizzare innaturali separatezze. Alle donne democratiche (ma vale anche per le altre) vorrei dire: scrivetelo voi il programma al femminile, aprite voi le sezioni, selezionate voi le candidature, date il tono alle campagne elettorali, portate avanti i processi legislativi, presidiate le vostre conquiste e ponetene altre – con relative scadenze. Al calendario fondato sulla sintonia dell’uomo con la vita, sostituitene uno che sia scritto anche con le vostre sintonie. Insieme sceglieranno le compatibilità.

da Europa Quotidiano 12.02.11

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“No, il dibattito sulle donne no”, di Monica Centanni

Qualche volta mi capita di essere una donna. Di presentarmi e definirmi come essere di genere femminile. Molto più raramente mi capita di essere chiamata in causa pubblicamente, politicamente, come donna – come accade oggi su Europa, come accadrà oggi pomeriggio all’assemblea costituente di Futuro e libertà, e come accadrà domani alla manifestazione “Se non ora, quando?“ a cui parteciperò.
Innanzitutto ricordiamoci qual è il punto. Si tratta di un’iniziativa proposta da un gruppo di donne per affermare, a voce alta, l’insofferenza di tanti cittadini contro un’immagine che, per la condotta personale e pubblica dell’attuale presidente del consiglio, conferma pesantemente un’idea di Italia che non assomiglia allo stile di vita reale e praticato dalla maggioranza dei cittadini italiani. Assomiglia invece alla peggiore iconografia di un’italietta piccola piccola, oscenamente gelosa di suoi vizi (tutti presunti innati, tutti evocabili per battute o per ammiccamenti, e comunque confessabili ed espiabili con tre-avemaria-e-un-paternoster) su cui si è formato l’immaginario piccolo-borghese degli anni ’50 del secolo scorso e che è stato prepotentemente riproposto negli ultimi quindici anni da Silvio Berlusconi, come imprenditore della comunicazione e poi come uomo politico, su tutti i piani in cui lo stesso Berlusconi ha potuto esercitare il suo potere: sul piano etico e antropologico dei modelli di comportamento pubblico, sul piano della cultura popolare, sul piano della comunicazione. Sia detto per inciso – a Berlusconi non va attribuita alcuna colpa per quanto ha saputo, più che voluto, fare.
Berlusconi non ha alcuna grandezza demoniaca e l’avvicinamento della sua figura ai satrapi ellenistici, ai prìncipi del basso impero o, come è accaduto nella fantasia di qualche anima semplice che si è proposta come la principessa delle fiabe, ai draghi medievali, fa torto a tutti gli eliogabali, a tutti i diavoli, a tutti i draghi della storia e della leggenda. Berlusconi è un signore anziano, molto maleducato, la cui educazione sentimentale è avvenuta in uno dei periodi culturalmente più tristi della gloriosa storia italiana. Non si può imputare a Berlusconi di non essere colto, di non conoscere altro mondo che il mondo suo che crede sia il mondo vero. La colpa, seria e pesante, è stata di chi negli anni in cui Berlusconi faceva della sua vita e della vita del nostro paese quel che può e sa fare, non ha saputo fare dire pensare affermare modelli diversi, politicamente e culturalmente. Di chi, gli intellettuali prima di tutti, si è ritratto nella torre d’avorio di un pensiero sempre più ammuffito e afasico, perché non speso nel gioco politico, confermando più o meno consapevolmente con la propria disaffezione al mondo, il disprezzo della dimensione pubblica e della politica stessa che è uno dei capisaldi del non-pensiero berlusconiano.
Ora, bel al di là dei risvolti giudiziari della vicenda (ancora più gravemente sul piano dell’etica pubblica e della costruzione dell’immaginario condiviso), il presidente del consiglio propone al paese e al mondo come suo stile di vita “personale” sconcertanti quadretti che non corrispondono a niente, che esistono solo nelle fantasie volgari di anziani signori che non hanno studiato né vissuto autenticamente. Che, al di là delle artate finzioni sondaggistiche, non rappresentano nessuno se non loro stessi e le loro senili ossessioni. Quadretti dalla sceneggiatura tanto fantastica e inesistente che, per costruirla, i maligni e interessati impiegati alla corte del premier hanno dovuto inventare complicati meccanismi di reclutamento e di controllo logistico ed economico, sulla cui amministrazione ora le varie comparse e lo stesso presidente del consiglio sono chiamati a dare conto anche sul piano giudiziario.
Accade che in questi sketch con personaggi vari appaiono molte figurine di genere femminile. E per questo un gruppo di cittadini, presentandosi per questa volta con voce femminile, ha preso la parola e ha proposto la manifestazione del 13 febbraio. Ma intorno a questa iniziativa è accaduta una cosa strana, che ha animato, in modo a dir la verità non troppo appassionante, il dibattito degli ultimi giorni. Tante donne, soprattutto intellettuali, quasi tutte di una certa età e autorevolezza, molte impegnate nelle lotte femministe fin dagli anni ’70, alcune attive anche sul fronte dei gender studies e della filosofia di genere, hanno tenuto a marcare una distanza dalla manifestazione del 13 febbraio con motivazioni diverse: perché troppo connotata politicamente o perché troppo poco connotata politicamente; perché l’appello è troppo generico e retorico, o perché troppo di genere; perché non dovrebbero essere le donne a manifestare ma tutti i cittadini; perché è da bacchettoni o perché sarebbe un pretesto; o, addirittura, infine, perché le figurine femminili che hanno attratto l’attenzione su di sé negli ultimi tempi sarebbero esempi di liberazione della donna. E anche questo poco intrigante dibattito, nel suo grigiore argomentativo, con la debolezza e fragilità di argomenti e contro-argomenti, con tutti i distinguo e le capziosità delle retoriche incrociate, è un triste riscontro della misura rattrappita e senile del pensiero non solo politico, ma soprattutto culturale, italiano.
Cerco di argomentare meglio la mia analisi e il mio giudizio con un esempio. Quando in autunno gli studenti delle scuole italiane – scuole superiori e università – hanno manifestato contro la riforma Gelmini, solo i più feroci rappresentanti dell’antipolitica al potere (per esempio i gasparri o le stesse gelmini) hanno contestato agli studenti la possibilità di manifestare in quanto studenti. Certo che la riforma della scuola riguarda tutti, non solo studenti e docenti, non solo la formazione e la cultura, ma l’intero progetto politico, sociale, economico del nostro paese. Ma è altrettanto certo che è stato bellissimo e giusto che un gruppo di giovani cittadini e futuri cittadini, non a caso i più esigenti, quelli a cui più a sta a cuore anche per il loro stesso futuro personale il futuro pubblico dell’Italia, si siano manifestati in veste di studenti per prendere la parola per conto di tutti e per ricordarci, ricordare a tutti, chi siamo e da dove veniamo. Ciascuno di quegli studenti certo era anche un veneto o un lombardo, un credente in qualche fede o un laico. Qualcuno era ricco, qualcun altro di classe media, o povero.
Erano anche femmine e maschi: ma in quell’occasione è stato importante che si siano presentati, che abbiano manifestato, per tutti i cittadini italiani, presentandosi come studenti. Usando per quell’occasione quella particolare maschera che ciascuno di loro, ciascuno di noi, ha come uno dei volti della propria complessa identità.
Ora. Qualche volta mi capita di essere una donna. Di presentarmi e definirmi come essere di genere femminile. Molto più raramente mi capita di essere chiamata in causa pubblicamente, politicamente, come donna. Più spesso mi presento pubblicamente come studioso; o come grecista, o come docente universitario. O come compagna di studi delle persone che studiano e lavorano con me. O come cittadino che pensa sia giusto e doveroso impegnarsi nella vita activa, pena l’asfissia del pensiero e delle passioni.
Questa volta ritengo sia opportuno che alcuni cittadini si presentino, per tutti i cittadini, come donne. Per dire, con voce chiara e forte, con voce femminile, che la sceneggiatura che ci vogliono proporre come “normale” non assomiglia a niente di normale e di vero. Non assomiglia a niente di quello che accade alla gente vera e bella, alla gente giovane di qualsiasi età, alla gente viva di questa nostra grande e meravigliosa Italia, in cui da secoli i viaggiatori di tutto il mondo cercano e trovano grazia, eros, incanto e bellezza. Di persone e di paesaggi, di arte e di colori.
Non assomiglia a quello che accade alla gente vera, alla gente che vive e lavora, che ama e che studia. Che è madre, padre, figlio. Fratello, amico.
Sposo o amante. Non assomiglia a quello che accade alle feste vere in cui, dopo l’asilo, ci si invita in quanto persone e non in quanto femmine e maschi. Non assomiglia ai rapporti di amicizia e di amore in cui vale tutto tranne che l’indistinto: vale la qualità della persona che si incontra, vale quel tratto solo suo. In cui si scelgono amici, amanti, collaboratori e compagni di avventura, non per l’uniformità di un canone indifferenziato – la brutta e inutile uniformità di individui bellocci, tutti di genere femminile e tutti anagraficamente, genericamente, giovani. Come in un campionario da venditori porta a porta, in un listino di prodotti uniformi con variazioni minime– barbie nella versione bionda o mora, bianca o “abbronzata”.
Figurine spesso rese ancor più interscambiabili da devastanti interventi di chirurgia che neutralizzano qualsiasi tratto di personalità, qualsiasi grazia. Di tutti i miti che la tradizione classica ci ha consegnato l’immagine del satiro e le ninfe è uno dei più macchiettistici e malinconici – non solo perché, come ci ha insegnato James Hillman, non c’è Eros nel satiro che insegue e nella figura indistinta della ninfa che corre, astrazione anonima del genere femminile.
Non solo perché la scena è tutta, naturalisticamente, scontata.
Non solo perché la ninfa corre o cede, ma non conosce il gioco d’amore. Non solo perché Pan o il satiro non conosce Eros. E perché a Eros non interessano tutte le ninfe, ma quella particolare forma che incanta una, particolarissima e non codificabile, intenzione del desiderio. Alle persone vive, che non soffrono di patologia prostatica dell’Ego, ai giovani di tutte le età, non interessa la ninfa. Interessa quel particolare individuo, maschio femmina o quel che sia: interessa la piena soddisfazione dell’incontro con uno spirito e un corpo diverso dal proprio, non la macabra rappresentazione del proprio potere e della propria potenza.
Serve ora ricostruire un paesaggio immaginale che sia all’altezza del paesaggio culturale e artistico della tradizione italiana. Sta a noi cittadini cambiare il profilo del mondo, proiettare nuove immagini. Tra i cittadini ad alcuni la natura ha dato una voce particolare, e in dote la capacità magica di curare le cose, le persone e gli elementi.
Ha dato la capacità fisica di mettere al mondo il mondo. Ed è questa capacità, magica, poietica, intellettuale, che possiamo dire per voce di donna. Rimettere al mondo, anche politicamente, il mondo: servono, per questa volta, voci di donna, voci femminili di cittadini italiani, per dirlo.
Monica Centanni
Qualche volta mi capita di essere una donna. Di presentarmi e definirmi come essere di genere femminile. Molto più raramente mi capita di essere chiamata in causa pubblicamente, politicamente, come donna – come accade oggi su Europa, come accadrà oggi pomeriggio all’assemblea costituente di Futuro e libertà, e come accadrà domani alla manifestazione “Se non ora, quando?“ a cui parteciperò.
Innanzitutto ricordiamoci qual è il punto. Si tratta di un’iniziativa proposta da un gruppo di donne per affermare, a voce alta, l’insofferenza di tanti cittadini contro un’immagine che, per la condotta personale e pubblica dell’attuale presidente del consiglio, conferma pesantemente un’idea di Italia che non assomiglia allo stile di vita reale e praticato dalla maggioranza dei cittadini italiani. Assomiglia invece alla peggiore iconografia di un’italietta piccola piccola, oscenamente gelosa di suoi vizi (tutti presunti innati, tutti evocabili per battute o per ammiccamenti, e comunque confessabili ed espiabili con tre-avemaria-e-un-paternoster) su cui si è formato l’immaginario piccolo-borghese degli anni ’50 del secolo scorso e che è stato prepotentemente riproposto negli ultimi quindici anni da Silvio Berlusconi, come imprenditore della comunicazione e poi come uomo politico, su tutti i piani in cui lo stesso Berlusconi ha potuto esercitare il suo potere: sul piano etico e antropologico dei modelli di comportamento pubblico, sul piano della cultura popolare, sul piano della comunicazione. Sia detto per inciso – a Berlusconi non va attribuita alcuna colpa per quanto ha saputo, più che voluto, fare.
Berlusconi non ha alcuna grandezza demoniaca e l’avvicinamento della sua figura ai satrapi ellenistici, ai prìncipi del basso impero o, come è accaduto nella fantasia di qualche anima semplice che si è proposta come la principessa delle fiabe, ai draghi medievali, fa torto a tutti gli eliogabali, a tutti i diavoli, a tutti i draghi della storia e della leggenda. Berlusconi è un signore anziano, molto maleducato, la cui educazione sentimentale è avvenuta in uno dei periodi culturalmente più tristi della gloriosa storia italiana. Non si può imputare a Berlusconi di non essere colto, di non conoscere altro mondo che il mondo suo che crede sia il mondo vero. La colpa, seria e pesante, è stata di chi negli anni in cui Berlusconi faceva della sua vita e della vita del nostro paese quel che può e sa fare, non ha saputo fare dire pensare affermare modelli diversi, politicamente e culturalmente. Di chi, gli intellettuali prima di tutti, si è ritratto nella torre d’avorio di un pensiero sempre più ammuffito e afasico, perché non speso nel gioco politico, confermando più o meno consapevolmente con la propria disaffezione al mondo, il disprezzo della dimensione pubblica e della politica stessa che è uno dei capisaldi del non-pensiero berlusconiano.
Ora, bel al di là dei risvolti giudiziari della vicenda (ancora più gravemente sul piano dell’etica pubblica e della costruzione dell’immaginario condiviso), il presidente del consiglio propone al paese e al mondo come suo stile di vita “personale” sconcertanti quadretti che non corrispondono a niente, che esistono solo nelle fantasie volgari di anziani signori che non hanno studiato né vissuto autenticamente. Che, al di là delle artate finzioni sondaggistiche, non rappresentano nessuno se non loro stessi e le loro senili ossessioni. Quadretti dalla sceneggiatura tanto fantastica e inesistente che, per costruirla, i maligni e interessati impiegati alla corte del premier hanno dovuto inventare complicati meccanismi di reclutamento e di controllo logistico ed economico, sulla cui amministrazione ora le varie comparse e lo stesso presidente del consiglio sono chiamati a dare conto anche sul piano giudiziario.
Accade che in questi sketch con personaggi vari appaiono molte figurine di genere femminile. E per questo un gruppo di cittadini, presentandosi per questa volta con voce femminile, ha preso la parola e ha proposto la manifestazione del 13 febbraio. Ma intorno a questa iniziativa è accaduta una cosa strana, che ha animato, in modo a dir la verità non troppo appassionante, il dibattito degli ultimi giorni. Tante donne, soprattutto intellettuali, quasi tutte di una certa età e autorevolezza, molte impegnate nelle lotte femministe fin dagli anni ’70, alcune attive anche sul fronte dei gender studies e della filosofia di genere, hanno tenuto a marcare una distanza dalla manifestazione del 13 febbraio con motivazioni diverse: perché troppo connotata politicamente o perché troppo poco connotata politicamente; perché l’appello è troppo generico e retorico, o perché troppo di genere; perché non dovrebbero essere le donne a manifestare ma tutti i cittadini; perché è da bacchettoni o perché sarebbe un pretesto; o, addirittura, infine, perché le figurine femminili che hanno attratto l’attenzione su di sé negli ultimi tempi sarebbero esempi di liberazione della donna. E anche questo poco intrigante dibattito, nel suo grigiore argomentativo, con la debolezza e fragilità di argomenti e contro-argomenti, con tutti i distinguo e le capziosità delle retoriche incrociate, è un triste riscontro della misura rattrappita e senile del pensiero non solo politico, ma soprattutto culturale, italiano.
Cerco di argomentare meglio la mia analisi e il mio giudizio con un esempio. Quando in autunno gli studenti delle scuole italiane – scuole superiori e università – hanno manifestato contro la riforma Gelmini, solo i più feroci rappresentanti dell’antipolitica al potere (per esempio i gasparri o le stesse gelmini) hanno contestato agli studenti la possibilità di manifestare in quanto studenti. Certo che la riforma della scuola riguarda tutti, non solo studenti e docenti, non solo la formazione e la cultura, ma l’intero progetto politico, sociale, economico del nostro paese. Ma è altrettanto certo che è stato bellissimo e giusto che un gruppo di giovani cittadini e futuri cittadini, non a caso i più esigenti, quelli a cui più a sta a cuore anche per il loro stesso futuro personale il futuro pubblico dell’Italia, si siano manifestati in veste di studenti per prendere la parola per conto di tutti e per ricordarci, ricordare a tutti, chi siamo e da dove veniamo. Ciascuno di quegli studenti certo era anche un veneto o un lombardo, un credente in qualche fede o un laico. Qualcuno era ricco, qualcun altro di classe media, o povero.
Erano anche femmine e maschi: ma in quell’occasione è stato importante che si siano presentati, che abbiano manifestato, per tutti i cittadini italiani, presentandosi come studenti. Usando per quell’occasione quella particolare maschera che ciascuno di loro, ciascuno di noi, ha come uno dei volti della propria complessa identità.
Ora. Qualche volta mi capita di essere una donna. Di presentarmi e definirmi come essere di genere femminile. Molto più raramente mi capita di essere chiamata in causa pubblicamente, politicamente, come donna. Più spesso mi presento pubblicamente come studioso; o come grecista, o come docente universitario. O come compagna di studi delle persone che studiano e lavorano con me. O come cittadino che pensa sia giusto e doveroso impegnarsi nella vita activa, pena l’asfissia del pensiero e delle passioni.
Questa volta ritengo sia opportuno che alcuni cittadini si presentino, per tutti i cittadini, come donne. Per dire, con voce chiara e forte, con voce femminile, che la sceneggiatura che ci vogliono proporre come “normale” non assomiglia a niente di normale e di vero. Non assomiglia a niente di quello che accade alla gente vera e bella, alla gente giovane di qualsiasi età, alla gente viva di questa nostra grande e meravigliosa Italia, in cui da secoli i viaggiatori di tutto il mondo cercano e trovano grazia, eros, incanto e bellezza. Di persone e di paesaggi, di arte e di colori.
Non assomiglia a quello che accade alla gente vera, alla gente che vive e lavora, che ama e che studia. Che è madre, padre, figlio. Fratello, amico.
Sposo o amante. Non assomiglia a quello che accade alle feste vere in cui, dopo l’asilo, ci si invita in quanto persone e non in quanto femmine e maschi. Non assomiglia ai rapporti di amicizia e di amore in cui vale tutto tranne che l’indistinto: vale la qualità della persona che si incontra, vale quel tratto solo suo. In cui si scelgono amici, amanti, collaboratori e compagni di avventura, non per l’uniformità di un canone indifferenziato – la brutta e inutile uniformità di individui bellocci, tutti di genere femminile e tutti anagraficamente, genericamente, giovani. Come in un campionario da venditori porta a porta, in un listino di prodotti uniformi con variazioni minime– barbie nella versione bionda o mora, bianca o “abbronzata”.
Figurine spesso rese ancor più interscambiabili da devastanti interventi di chirurgia che neutralizzano qualsiasi tratto di personalità, qualsiasi grazia. Di tutti i miti che la tradizione classica ci ha consegnato l’immagine del satiro e le ninfe è uno dei più macchiettistici e malinconici – non solo perché, come ci ha insegnato James Hillman, non c’è Eros nel satiro che insegue e nella figura indistinta della ninfa che corre, astrazione anonima del genere femminile.
Non solo perché la scena è tutta, naturalisticamente, scontata.
Non solo perché la ninfa corre o cede, ma non conosce il gioco d’amore. Non solo perché Pan o il satiro non conosce Eros. E perché a Eros non interessano tutte le ninfe, ma quella particolare forma che incanta una, particolarissima e non codificabile, intenzione del desiderio. Alle persone vive, che non soffrono di patologia prostatica dell’Ego, ai giovani di tutte le età, non interessa la ninfa. Interessa quel particolare individuo, maschio femmina o quel che sia: interessa la piena soddisfazione dell’incontro con uno spirito e un corpo diverso dal proprio, non la macabra rappresentazione del proprio potere e della propria potenza.
Serve ora ricostruire un paesaggio immaginale che sia all’altezza del paesaggio culturale e artistico della tradizione italiana. Sta a noi cittadini cambiare il profilo del mondo, proiettare nuove immagini. Tra i cittadini ad alcuni la natura ha dato una voce particolare, e in dote la capacità magica di curare le cose, le persone e gli elementi.
Ha dato la capacità fisica di mettere al mondo il mondo. Ed è questa capacità, magica, poietica, intellettuale, che possiamo dire per voce di donna. Rimettere al mondo, anche politicamente, il mondo: servono, per questa volta, voci di donna, voci femminili di cittadini italiani, per dirlo.

da Europa Quotidiano 12.02.11