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«Perché Pdl e Lega litigano sul 17 marzo», di Gianni Del Vecchio

Giorno di festa per l’unità d’Italia, giorno di guerra nel governo: il Carroccio parla di «follia»
Il presidente del consiglio andrà a processo fra un mese e mezzo per concussione e prostituzione minorile, la maggioranza è alla ricerca spasmodica di nuovi voti a Montecitorio per tirare a campare, il governo traballa un giorno sì e l’altro pure, e il consiglio dei ministri che fa? Si spacca sull’opportunità o meno di festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.
Ieri mattina palazzo Chigi sembrava la sala da ballo del Titanic poco prima dell’impatto con il fatale iceberg, i passeggeri intenti a ballare e l’orchestrina a suonare. La riunione infatti è stata dominata dai litigi sul prossimo 17 marzo: i ministri ex An di fede pidiellina, ovvero Ignazio La Russa e Giorgia Meloni, si sono impuntati perché la ricorrenza venga festeggiata da tutti, sia dipendenti pubblici che privati.
Di tutt’altro avviso gli esponenti leghisti, Umberto Bossi, Roberto Calderoli e Roberto Maroni, che dell’unità d’Italia se ne sono sempre fatti un baffo: meglio lavorare e non perdere un giorno inutilmente.
Così, attorno ai due poli opposti, è partita una discussione dai toni surreali, a cui ha partecipato anche il ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini, la quale ha espresso più di una riserva sul decreto istitutivo della festa. Per non tacere della collega Michela Vittoria Brambilla, che solo ventiquattrore prima aveva espresso tutta la sua contrarietà salvo poi fare una repentina inversione a U durante il consiglio («Ci sono diverse festività che cadono nel weekend, quindi questa festa sarà un’occasione per viaggi in Italia e compenserà l’assenza di altri ponti»). Tutto poi si è concluso con una votazione, che però non ha sanato le divergenze.
Anzi. Bossi e Calderoli hanno votato contro, Maroni è andato via prima che finisse la riunione, tutti gli altri si sono espressi a favore. Il decreto pro-festa quindi è passato ma senza il consenso leghista. Non a caso il ministro della semplificazione, appena uscito dalla riunione, ha duramente criticato la scelta dei suoi colleghi: «Fare un decreto legge per istituire la festività del 17 marzo in un paese che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale, e in più farlo in un momento di crisi economica internazionale, è pura follia. Ed è anche incostituzionale ».
Lo strappo leghista, a ben vedere, non è il solito rigurgito anticentralista ma è frutto di un calcolo politico ben preciso.
La primavera si avvicina e con essa le elezioni amministrative, appuntamenti importanti del calibro delle comunali a Milano, Torino e Bologna, solo per fare qualche esempio.
Gli uomini del Carroccio quindi si preparano ad affrontare l’ennesima competizione elettorale, che al Nord significa concorrenza fratricida con gli alleati del Pdl. Così le camicie verdi hanno bisogno di prendere le distanze dall’inesistente azione di governo e soprattutto dalla latitanza del presidente del consiglio, più affaccendato a pianificare una exit strategy dalle sue grane giudiziarie che a risolvere i problemi del paese. Quale modo migliore allora che rispolverare una vecchia battaglia identitaria come il mancato riconoscimento dell’armamentario ideologico risorgimentale? Negando il valore simbolico del 1861, infatti, i leghisti possono presentarsi ai propri elettori e al proprio popolo come i soliti anti-italiani duri e puri, e allo stesso tempo non creare troppi problemi a una maggioranza sempre sul filo del rasoio.
La polemica sul 17 marzo, in fin dei conti, non è per niente pericolosa per la tenuta del Berlusconi IV (il premier infatti sull’argomento non ha fiatato), mentre consolida l’immagine della Lega nelle regioni attraversate dal Po.

da www.europaquotidiano.it

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«E il premier dà un dispiacere al suo alleato più prezioso», di Amedeo La Mattina Costretto al sacrificio per non affrontare in aula la mozione del Pd

Ad un certo punto del Consiglio dei ministri Berlusconi si è appisolato, ha lasciato che se la sbrigasse Gianni Letta con la «fastidiosa» discussione sulla festività del 17 marzo. 1150 anni dell`Italia non lo hanno mai appassionato. Il premier era invece molto sveglio quando il ministro della Giustiazia Alfano ha fatto la sua relazione sulla giustizia e, ovviamente, è intervenuto con il suo solito piglio battagliero. Del resto sapeva che una soluzione era stata già trovata nei giorni scorsi grazie alla mediazione del suo efficente sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Letta infatti aveva convocato diverse volte a Palazzzo Chigi i ministri La Russa, Meloni e Calderoli, i tre che si sono dati battaglia pro e contro.
La Lega ha tenuto duro sposando in pieno la tesi di Confindustria e delle imprese sulle perdite economiche. Molti nel Pdl erano schierati da questa parte, soprattutto il ministro Gelmini che si rifiutava di chiudere le scuole, tanto che si era resa non disponibile a scrivere una circolare in tal senso.
Quando poi questa circolare è stata scritta, i leghisti hanno votato contro in uno dei Com di alcune settimana fa. «Il Risorgimento si può insegnare meglio tenendo le scuole aperte», ripeteva la Gelmini tutte le volte doveva contrastare l`insistenza di La Russa e Meloni, i veri vincitori di questa partita. Una vittoria non sperata visto che di solito Bossi la spunta sempre. Ma allora, come mai ieri il Cdm ha deciso che il 17 marzo sarà festa nazionale? Si potrà pensare che ci sia stato il pressing del capo dello Stato, che tiene tanto alle celebrazioni delI`unítà d`Italia. Ma qualcuno nella maggioranza fa notare maliziosamente che Napolitano è stato freddo a sostenere le po- sizioni degli ex An. Ovviamente non perché sia contro la festività in sè, figuriamoci, piuttosto per questioni giuridiche, per, lo strumento usato (il decreto legge) e per la mancanza della copertuta finanziaria. Che poi, paradossalmente, sono le stesse tesi esposte con forza da Calderoli.
Inoltre, aggiungono sempre i maliziosi, il presidente della Repubblica non è rimasto insensibile alle argomantazione degli industriali che non vogliono perdere e pagare un giorno di lavoro in questa difficile congiuntura economica. Alla fine il Quirinale non si è intromesso più di tanto. E allora? Perchè ad un certo punto Berlusconi ha detto a Letta di trovare una soluzione che,avrebbe fatto contenti gli ex An? E questo nonostante la stragrande maggioranza dei ministri ex Forza Italia erano contrari come si è visto ieri. Da Gelmini («non ci possiamo mettere contro il mondo produttivo») a Sacconi, da Romani a Brunetta.
Ecco, sembrerà strano ma questa volta a preoccupare il premier è stata la mozione presentata dal Pd. Una mozione che sarebbe andata al voto della Camera già la prossima settimana ed approvata. Im- pegnando il governo a istitutire la festa del 17 marzo e facendo esplodere ìn aula la divergenza tra Pdl e Lega, proprio in una fase difficile in cui Berlusconi chiede la massima compattezza.
Così si è arrivati allo scontro di ieri, ma la decisione era stata presa. Bossi e Calderoli hanno chiesto a Letta di mettere agli atti il loro dissenso. Alla Lega serve mandare un messaggio al suo popolo antiunitario e alle piccole e medie imprese di riferimento. Maroni subito prima del voto ha lasciato Palaz- zo Chigi dicendo che aveva degli impe- gni. Era in pochi a sapere che il ministro dell`Interno da lì a poco avrebbe incontrato D`Alema.
Comunque, eravamo rimasti al momento del voto nel Com. Una volta presa la decisione Bossi e Calderoli stizziti si solo alzati e hanno abbandonato i lavori. Ma lesto Letta ha detto: «Ce ne stiamo andando tutti, tanto la riunione è finita». Insomma, un po` di sceneggiata, ma dopo La Russa ha avvicinato Bossi e gli ha fatto presente che l`unità d`Italia non è in contrasto con il federalismo.
E che i paesi più federalisti hanno una fortissima identità nazionale. «Sì, ma noi il federalismo ancora non ce l`abbiamo», l`ha gelato il capo del Carroccio. «Allora quando avremo il federalismo festeggiareme insieme la nascita dell`Italia», ha risposto il ministro della Difesa senza perdersi d`animo. «E poi – ha aggiunto La Russa nessuno vi obbliga a festeggiare ma non potete pretendere che non la celebriamo noi l`unità nazionale».
Il ministro Meloni è uscita da palazzo Chigi felice come una Pasqua. «Dopo lo spettacolo di Benigni a Sanremo, se non avessimo preso questa decisione, avremmo fatto una figura pessima. Lo sto cercando perché voglio fargli conoscere la mostra che abbiamo organizzato sulla “Gioventù ribelle” del Risorgimento, quella di cui ha parlato Benigni. Mi veniva da piangere per l`emozione. Se insieme riusciamo a far conoscere ai giovani questa storia – dice la Meloni – forse riusciremo a far mettere loro una maglietta con la faccia di Mameli e non solo di Che Guevara».

da La Stampa

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“Valorizziamo ciò che ci unisce”, di Giorgio Napolitano

Caro direttore, il Consiglio dei Ministri ha adottato la decisione che ad esso competeva per quel che riguarda le modalità della festa del 17 marzo 2011. Ho ritenuto di dover restare – nel mio ruolo – estraneo a ogni disputa in proposito. Ma ritengo che lo spirito della decisione presa sia apprezzabile. Quello che conta è che ci sia piena e attiva consapevolezza, a tutti i livelli istituzionali, del significato delle celebrazioni di questo storico anniversario: e cioè, della necessità di farne occasione di riflessione seria e non acritica, e insieme di decisa valorizzazione di tutto quel che ci unisce come nazione e ci impegna come Stato unitario di fronte ai problemi e alle sfide che ci attendono.
Nelle celebrazioni così concepite confido che potranno riconoscersi tutte le forze politiche, sociali e culturali, potranno aver spazio tutte le sensibilità.

da la Repubblica

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“I leghisti ricordino che i Mille erano del Nord”, di Dario Pappalardo
Il pronipote di Garibaldi: 150 anni fa i giovani morivano per un ideale, è una lezione che è doveroso tramandare

ROMA – «Agli esponenti della Lega direi che i loro padri non portavano la camicia verde, ma quella rossa: l´unità d´Italia è partita dal nord. Da lì si è creduto di unificare i nostri valori in una nazione». Giuseppe Garibaldi ha lo stesso nome del suo bisnonno (è figlio di Ezio, figlio a sua volta di Ricciotti, nato da Anita e dall´eroe dei due mondi) e con toni pacati, ma decisi, commenta la spaccatura del governo sulla festa del 17 marzo.
Insomma, la festa ci sarà, ma la data continua a dividere…
«Si tratta di una ricorrenza da celebrare ogni 50 anni. Sarebbe ridicolo che il Paese non la festeggiasse: l´unità è costata tantissimo soprattutto in vite umane e bisogna ricordarlo. Oggi, se non fossimo uniti, non ci troveremmo in Europa. Chi si oppone alla festa non sta combattendo una battaglia di civiltà. Già il mio bisnonno diceva: “Altra Italia io sognai”».
Intende dire che Garibaldi lo direbbe anche oggi?
«Garibaldi sosteneva che solo quando ottiene la riconoscenza del popolo, allora il politico ha fatto il suo dovere. Oggi il dovere è tramandare i valori del Risorgimento ai più giovani, ma evidentemente non siamo ancora coscienti di essere italiani tutti insieme. Per questo, per i ragazzi è impossibile capire che 150 anni fa i loro coetanei non morivano in cerca di fama e denaro, ma inseguendo un ideale».
Crede che i ministri leghisti interpretino un´insofferenza diffusa rispetto all´anniversario?
«No. Sono tanti i festeggiamenti spontanei in molti comuni che oggi scoprono lapidi, ricordano i loro garibaldini. Gli italiani, in genere, sono migliori di chi li governa, non solo adesso. Ci sarebbe bisogno di un altro Garibaldi, di un leader come lui in grado di individuare una nuova classe dirigente: i mille erano i suoi quadri, li aveva scelti uno a uno. Oggi, invece, i politici sono incapaci di costruire una squadra adatta a governare il Paese».
Sta pensando di scendere in politica?
«Ho rinunciato a fare politica per non coinvolgere il nome che porto né a destra, né a sinistra. Quello che mi preoccupa in questo anniversario, come pronipote, è trasmettere il significato giusto di quelli che erano i valori di Garibaldi».
E quali sono questi valori?
«Onestà, dignità, obiettivi chiari, nessun arricchimento per le proprie tasche. E poi, me lo lasci dire, rispetto e alta considerazione della donna. Aveva fama di donnaiolo, è vero, ma le donne le rispettava. Anita gli era accanto, sempre. Era coinvolta nelle insurrezioni soprattutto dal punto di vista ideologico e teorico delle iniziative».

da La Repubblica