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«Venti milioni di italiani per il rabdomante Benigni», di Curzio Maltese

Che cosa rappresenta Roberto Benigni per i quasi venti milioni di italiani che giovedì sera hanno seguito il suo show sul palco dell´Ariston? Un grande attore, un comico immenso, un poeta della risata? Ma questo ormai Benigni lo è per tutto il mondo.

In Italia, nella patria dove nessun poeta è tale, Roberto è qualcosa di diverso: è un rabdomante. Uno che da sempre sente e capisce dove sta il sentimento popolare, il più profondo e nascosto, incompreso da politici, opinionisti e sondaggisti. Un Cristoforo Colombo dell´opinione pubblica. Perché, come disse un tale una volta, se Colombo avesse dato retta ai sondaggi, mai si sarebbe scoperta l´America. Benigni non dà retta ai sondaggi e s´imbarca in avventure incredibili, come fu più di dieci anni fa La vita è bella, com´è stata la sera di Sanremo. La canzone dell´Italia al festival della canzone italiana, proprio l´uovo di Colombo.
Da giorni Benigni era preoccupato, diciamo pure terrorizzato, dall´appuntamento sanremese. Come un equilibrista davanti a un filo teso fra due grattacieli. Da un lato e dall´altro, l´abisso della retorica, del ridicolo. Da un lato, il prevedibile discredito lanciato dai servi del padrone, in caso di attacco aperto al signore, con gli argomenti più fangosi e miserabili. Dall´altro il moralismo dei puri e duri, nel caso opposto di un mancato accenno alle vicende d´attualità. Che si fa, si parla o no di Ruby e le altre? Un altro avrebbe calcolato la giusta misura: non è nel mezzo che sta da sempre la virtù dei furbi?
Roberto Benigni a Sanremo, come Roberto Saviano a Vieni via con me, non ha fatto calcoli. Si sono lanciati entrambi in un´impresa teoricamente senza speranze nel paese berlusconizzato da vent´anni. E proprio a partire dal luogo più berlusconizzato: la televisione. Non la satira, che può ancora starci, ma un linguaggio, un modo di comunicare «a prescindere» dal berlusconismo. Un tono alto, serio, appassionato. Un appello al popolo senza populismo: l´esatto opposto del berlusconismo. Quello di cui ha bisogno il Paese più profondo.
Quello che non sa bene chi siano stati Mameli e Novaro, ma neppure Cavour e Mazzini e Garibaldi, ma oggi ha bisogno di sentirseli raccontare. Di sentirsi raccontare la bellezza infinita dell´Italia, nonostante tutto. Questo modo di agire si chiama inseguire il bene comune. Una volta lo faceva la politica. Da tempo la politica non lo fa, e allora arrivano gli artisti, gli scrittori, gli attori, i comici. Non è la prima volta che accade in Italia. Anzi, come ha spiegato lo stesso Benigni nella sua lezione, nella nostra storia è stato quasi sempre così. L´Italia è l´unica nazione nella storia del mondo dove la cultura unitaria sia venuta molto prima dell´unità politica. Perché per nessun altro popolo, per nessun´altra storia è stata tanto importante la bellezza. La bellezza vera, che coincide con la verità, non l´estetica o l´immagine, minimi surrogati nei tempi corrotti.
In un paese paradossale, stavolta è accaduto che per una volta il giullare abbia impiccato il re. Quella di Benigni è stata una lezione di politica. Non la prima parte, la satira, pur irresistibile, sulle miserie dell´attualità. Ma la seconda, il discorso sull´inno. La lezione che si può rivolgersi direttamente ai sentimenti migliori del popolo e non ai peggiori, e ciò nonostante con enorme successo. Oggi, con un successo superiore a quello di un populismo rinchiuso a palazzo, barricato dietro ai propri privilegi, spaventato dalla sola idea di affidarsi alla libera scelta dei cittadini. Tutto questo è accaduto nel terreno di elezione e di selezione della classe dirigente dell´ultimo ventennio italiano, nel cuore della macchina del consenso: la televisione. Già due volte, prima con Saviano (e già c´era Roberto) e ora nel cuore della patria televisiva, il festival di Sanremo. I luoghi dove nel tempo è stata elaborata l´idea che sentirsi italiani equivalga a un simpatico, ma superficiale e grottesco patriottismo di serie B, roba da canzonette e partite di pallone. Quindi non può essere un caso, ma la prova che il vento del cambiamento comincia a soffiare, perfino dalla platea dell´Ariston, nel centro stesso del ridicolo impero.

da la Repubblica

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«L’Inno non sarà più lo stesso», di Stefania Carini
Doveva essere la serata di Benigni. Poi è arrivato Tricarico. A lui è infatti affidato il secondo inno d’Italia, L’Italiano di Toto Cutugno. Tricarico lo fa suo, ovvero lo sussurra legnoso. Ma è tutto il contorno che ci dà il vero carattere della nazione. A metà dell’esibizione entra infatti Toto Cutugno, in puro stile Carramba, insieme a un gruppo di ragazzi dai tratti “stranieri” a far da coro. A fine della straziante esibizione, Morandi si appresta intervistarli. Perché loro sono i nuovi italiani, tutti nati in Italia! Morandi chiede al primo: «Di dove sei?» Lui: «Marocco».
Ecco. L’Italia è questa, un pasticcio. Sì, è stata la serata di Benigni. Che nel vuoto cosmico si ingigantisce. Tattica retorica L’orazione civile dedicata all’Inno di Mameli inizia con la solita tattica retorica: il comico giura che parlerà solo dell’Inno, e poi inanella una serie di battute su Berlusconi. Tipo che l’Italia è un paese giovane, solo 150, quasi una minorenne. Che la Cinquetti si era spacciata per la nipote di Claudio Villa. Che Cavour fu beccato a fine carriera con la nipote di Metternich. Basta dire “Silvio Pellico Le mie prigioni”, fare una pausa, e viene quasi giù l’Ariston.
Poi Benigni attacca con l’esegesi dell’Inno, spiegando tanto, affascinando anche, ripetendo troppo spesso memorabile. Sono ben 40 minuti (forse troppi) di affabulazione linguistica e mimica, di commozione e ispirazione. Peccato che Benigni separi il serio dal faceto, quando invece sarebbe stato più efficace condire la spiega con qualche ironia di più.
Lezione di buon senso Benigni ha sdoganato la festa. Lo share (siamo al 50%) esprime il sentire popolare, e viene tradotto subito in azione. Sarà una coincidenza, ma il giorno dopo arriva la decisione: il 17 marzo sarà in tutto e per tutto giorno di celebrazioni.
Con buona pace della Lega. Benigni ha dato una piccola lezione di buon senso, ha spiegato come fare educazione civica: se i ragazzini stanno a casa quel giorno, si chiedono il perché, e questo è già un passo avanti per educare all’idea di patria. Politica del popolo spiccia.
Ma tant’è. Siamo diventati più consapevoli.
Se ci si alza in piedi all’Ariston per osannare l’Inno di Mameli, e si insegna pure a Bossi a interpretarlo correttamente, come si fa poi a dire che no, voi il 17 marzo ve ne andate a scuola, ve ne andate a lavorare? A fine esegesi, Benigni canta l’Inno. Senza musica. Pathos puro. Poi entra Morandi e subito ammazza l’emozione, con la collaborazione della Canalis. Frammenti Benigni rimarrà negli annali? Di sicuro, più di altre molte previste celebrazioni sull’Unità made in Rai.
Sulla scelta delle canzoni “storiche”, ci sarebbe da aprire un lungo dibattito. Alcune paiono essere state scelte solo per illustrare qualche temino degli autori. Albano per Va pensiero è premiato dal televoto del pubblico: dovere storico, televoto leghista, solita simpatia per Albano? Luca e Paolo leggono Gramsci, e si apre un’altra parentesi non chiusa. Belen omaggia il cinema italiano, ovvero rifà una scena del film Nine, musical Usa pieno di luoghi comuni sull’Italia e il suo cinema, una sorta di rivisitazione pasticciata di 8 e mezzo. Ideare qualcosa di originale? Non c’è alcuna costruzione delle serata, solo frammenti sparsi. È un’Unità festeggiata da un’Italia che non sa darsi un racconto. Infine Morandi spiega la questione televoto: attenzione a non alterare la gara, perché noi non sappiamo come fermare «l’abuso di televoto». Tradotto: sì può imbrogliare, e non possiamo farci nulla. Più italiano di così.

da www.europaquotidiano.it

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«Sotto l’elmo di Benigni», di Gina Antonio Stella

Era ora che venisse restituito l’onore a Goffredo Mameli. Quel ragazzo morto a vent’anni nel 1849 nell’eroica difesa della Villa del Vascello a Roma e svillaneggiato da troppo tempo per quelle parole gonfie d’amore per l’Italia che strappano sorrisetti insulsi a chi è incapace di leggere la storia. Ed è davvero un segno dei tempi che a rendergli l’onore sia stato quel geniale istrione di Roberto Benigni. L’unico che poteva fare il miracolo: fermare il fiato a milioni di italiani in mezzo alle canzonette facendo loro intuire, forse per la prima volta, qual è il senso di quelle parole. Il senso di questa nostra storia. E certo non poteva scegliere giorno peggiore, ieri, il governo, per spaccarsi sulla decisione di consacrare il prossimo 17 marzo, una tantum, in occasione del Centocinquantenario, all’Unità d’Italia. «Solo una differenza di opinioni» , ha detto Ignazio La Russa. Ve l’immaginate se un ministro francese o tedesco, argentino o coreano, osasse liquidare così una frattura sulla celebrazione della più solenne festa nazionale? Verrebbe fatto a pezzi. Cosa c’è di più importante per una comunità del riconoscersi insieme in una epopea? Non c’è Stato al mondo che ignori il proprio atto di nascita. Solo noi. Rosario Romeo, davanti all’indecoroso tormentone di questi mesi, sarebbe basito: «Il Risorgimento rimane il processo politico più importante e positivo che il nostro Paese abbia conosciuto nei mille anni di vita della nazione italiana» . Fu segnato anche da errori come le fucilazioni di Bronte o il massacro di Pontelandolfo? Certo. E come ha scritto Giuseppe Galasso «non era neppure terminato che già si iniziò a processarlo» . Anche la Rivoluzione francese e il colonialismo inglese ebbero pagine nere: francesi e inglesi non buttano via, però, tutta la loro storia. Anche la bandiera americana è macchiata dalla tratta degli schiavi, dal genocidio dei pellirosse, dalla guerra civile: ma il 4 luglio gli americani la sventolano tutti, dall’Oregon all’Alabama. E se per caso la festa cade di domenica chiudono anche il lunedì. Perdono un po’ di ore di lavoro? Amen: l’orgoglio vale di più. Dice Roberto Calderoli che in un Paese in crisi come il nostro «che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale» celebrare l’Unità «è pura follia» . Si sarà confuso col «progetto di federalismo municipale» , ironizza lavoce. info. Stando ai dati Eurydice la nostra scuola, che Mariastella Gelmini avrebbe voluto tenere aperta, fa più giorni di lezione di tutti tranne il Lussemburgo: non per questo svetta. Secondo l’Eiro in Olanda, Germania e Danimarca i contratti riconoscono più ferie che da noi: nella classifica della competitività del Wef però loro sono davanti e noi al 48 ° posto. Il rapporto Mercer certifica che i meno assenteisti d’Europa sono i turchi (4,6 giorni di malattia l’anno) ma ciò non li colloca ai vertici della produttività. Non bastasse, in un anno senza «ponti» come questo, potrebbe venirne addirittura ossigeno al turismo. A farla corta: se sono questi i motivi per scartare la festa del Centocinquantenario, sono un po’ pelosi. Un Paese scivolato al 70 ° posto nel mondo dietro la Giamaica per velocità media in Internet e sempre più tagliato fuori dalle rotte delle immense porta-container perché da anni non si occupa di porti, ha davanti sfide più serie. Che può affrontare solo se crede di più in se stesso. E da dove potrebbe mai ripartire, se non da uno scatto di orgoglio patriottico?

da il Corriere della Sera

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«Se un comico ridesta l’Italia», di Michele Brambilla

Sventurato il Paese che ha bisogno di eroi, diceva Brecht. Si potrebbe dire sventurato anche il Paese che ha bisogno di comici: c’è voluto Roberto Benigni per risvegliare l’amore per l’Italia in un popolo che sembrava guardare alla propria patria senza emozione, senza stupore e quindi senza coglierne la bellezza. In tutto il mondo ammirano la nostra storia, la nostra cultura, la nostra arte, le nostre meraviglie naturali e anche tanti aspetti del nostro carattere. Per noi tutto questo scivola via come un qualcosa di acquisito e quindi di dovuto: ci soffermiamo sui nostri difetti (e quale popolo non ne ha?), ci diciamo che se c’è qualcosa che ci contraddistingue questa è la nostra cialtronaggine.
Il vecchio vizio dell’autodiffamazione dai film di Alberto Sordi (che con la sua satira confermava però il genio italiano) è diventato carne e sangue in tanta parte di popolo.
E soprattutto, ahimè, in tanta classe dirigente. Ma in quale Paese al mondo la politica si sarebbe divisa sull’opportunità o no di festeggiare un centocinquantesimo anniversario?
Il governo ha varato solo ieri il decreto che fa del 17 marzo una festa nazionale, dopo tante esitazioni da Sor Tentenna. E non è azzardato pensare che a dare la sveglia ci sono voluti Benigni e il festival di Sanremo. L’avete sentito Benigni quando, facendo l’esegesi della prima strofa – Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta – ha sottolineato il verbo destarsi? «Destiamoci, svegliamoci», ha quasi gridato. Difficile anche pensare che in Consiglio dei ministri non abbiano tenuto conto dei dati sugli ascolti: Benigni ha avuto un picco di 19 milioni 737 mila spettatori, e quando ha finito di cantare l’inno lo share era un mostruoso 65,6 per cento.
Ci sono voluti dunque Benigni e Sanremo per dare la sveglia, ma qualcuno s’è svegliato male. La Lega s’è opposta alla festa. Anzi, chiamiamo le cose con il loro nome: quella della Lega non è un’opposizione. Un’opposizione, così come ogni idea diversa, ha sempre diritto di cittadinanza, e si può dissentire anche su una festa nazionale. Ma chiamarla «follia», quindi dare del pazzo a chi vuole celebrare la nascita dell’Italia unita, non è un’idea diversa: è un qualcosa che si qualifica da sé e che qualifica anche chi lo esprime.
Se questo è il livello di chi ci governa, un livello purtroppo in linea con quello di tanti animatori del cosiddetto dibattito culturale, non stupisce che sia un comico a poter vestire legittimamente i panni del nuovo maestro nazionale. Negli anni Benigni ci ha raccontato l’orrore delle leggi razziali, la bellezza della nostra letteratura, perfino la profondità del senso religioso (ricordate come parlava della Madonna rileggendo Dante?), infine l’eroismo con cui i nostri fratelli del passato hanno dato la vita per un’Italia libera dal giogo straniero. E’ stato insieme maestro di storia e cantore delle passioni che di generazione in generazione hanno costituito ciò di cui oggi siamo fatti.
Ha riempito un vuoto, ed è totalmente fuori strada chi vuol fare di lui un interprete di parte. Benigni è un uomo di sinistra e non lo ha mai nascosto. Ma la sua lectio magistralis non ha nulla a che spartire con la desolante faziosità che ha contagiato da tempo politici e intellettuali sempre schierati a priori, mai disposti a riconoscere la realtà se la realtà non coincide con il proprio interesse. Benigni non è uomo che divide per chi lo guarda con occhi onesti. Giovedì sera, appena terminata la performance di Benigni, il ministro La Russa – che non è certo un uomo di sinistra – è andato a dar la mano al direttore artistico del festival, Gianmarco Mazzi: e in quel gesto, fatto in un silenzio che è parso solenne, è sembrato di vedere un sincero ringraziamento per quel che Sanremo aveva regalato agli italiani.
Benigni sa far ridere e sa far piangere, e chi sa far ridere e far piangere tocca le corde più profonde dell’umano. Un altro grande dello spettacolo, Mogol, non ha avuto torto ieri in conferenza stampa ad accostarlo a Chaplin, e a dire che l’altra sera Benigni ha risvegliato un sentimento di amor patrio che non era morto, ma solo sopito.
Accanto al viva l’Italia dell’altra sera sale dal cuore anche un viva Benigni, comico e maestro. E suscita speranza vedere anche comici più giovani come Luca e Paolo. A chi rimproverava loro di aver letto un brano di Gramsci, e quindi di un uomo di parte, Luca e Paolo hanno risposto che uno degli autori che hanno suggerito quel brano è di Comunione e Liberazione, non un comunista: a dimostrazione che per chi ragiona senza pregiudizi conta più la sostanza di un testo che la persona che l’ha scritto.
I comici volano più alto di chi dovrebbe guidarci per ruolo istituzionale. Ma forse questa, più che una sventura, è un’altra testimonianza di quanto siano infinite le risorse di un Paese che qualcuno non vorrebbe celebrare.

da www.lastampa.it